Condividiamo con piacere l’articolo scritto da Francesco Granatiero – membro del Comitato Poetico Letterario del CRS Durini – Centro di Ricerca e Studi per le lingue dialettali e minoritarie europee promosso da La casa della Poesia di Monza, e ringraziamo per il contributo.
Francesco Granatiero: Giovanni Tesio ci sorprende con la poesia in lingua piemontese
Giovanni Tesio, critico letterario di Tuttolibri e La Stampa, si è distinto, con e prima di Giacinto Spagnoletti e Franco Brevini, per aver curato note antologie e progetti editoriali, valorizzando la produzione poetica nei vari dialetti della nostra penisola. Si ricordano Il dialetto da lingua della realtà a lingua della poesia (Paravia, 1982) e Le parole di legno (Mondadori, 1984), entrambi in collaborazione con Mario Chiesa, Poeti in piemontese del Novecento (Centro Studi Piemontesi, 1990), in collaborazione con Albina Malerba, e la riproposta di Poesia dialettale del Novecento di Pier Paolo Pasolini e Mario dell’Arco (Einaudi, 1995).
Giovanni Tesio ha insegnato all’Università di Bergamo (Facoltà di lingue) e a quella di Vercelli (Lettere e Filosofia), oltre che nelle scuole medie superiori. La sua ricerca, sulla scia di Carlo Dionisotti, si è focalizzata sulla geografia e la storia della letteratura italiana, fruttando, in collaborazione con Gianni Oliva e Pietro Gibellini, opere importanti come Lo spazio letterario, storia e geografia della letteratura italiana (Brescia, La Scuola, 1989) e Il valore letterario, storia e antologia della letteratura italiana (4 voll., ivi 1994); e si è quindi approfondita, nel rapporto tra scrittura e territorio, con una monografia su Piero Chiara e la cura di molti grandi autori dialettali del Novecento italiano, nonché di numerosi scrittori in lingua come Cesare Pavese, Riccardo Bacchelli, Goffredo Parise, Vincenzo Consolo, Lucio Mastronardi e, non ultimo, Primo Levi, di cui è appena uscito Io che vi parlo : Conversazione con Giovanni Tesio (Einaudi, 2016).
Collabora con riviste come Belfagor, Critica letteraria, Italianistica, Giornale storico della letteratura, Lettere italiane, Studi Piemontesi, Letteratura e dialetti, di alcune delle quali è condirettore; e fa parte di importanti comitati di lettura, tra cui quello della collana “Lyra” delle Edizioni Interlinea di Novara, con cui ha recentemente pubblicato La poesia ai margini: Novecento tra lingua e dialetti (2014) – che fa da pendant al Novecento in prosa: da Pirandello a Busi (Ediz. Mercurio, 2011), L’ombra della stella: Il Natale dei poeti d’oggi, (2012), I più amati: Perché leggerli? come leggerli? (2012), Il canto dei presepi: Poesie di Natale, personali distici e quartine in italiano e in lingua piemontese (2014), e Parole essenziali: Un sillabario (2014).
Assai meno conosciuto è Giovanni Tesio poeta, autore di oltre trecento sonetti inediti in lingua piemontese. Di lui andrà ricordato almeno il precedente poetico In punto di svolta, introdotto da Pietro Gibellini (Lunarionuovo, 1985), una corona di diciassette sonetti, tutt’altro che canonici, dove un moderno trobar clus s’infratta in dedali e labirinti, per mezzo di una lingua altamente colta, densa ed espressiva, folta di arcaismi, latinismi, neologismi, tecnicismi, improntati a un modello petroso di sonetto con assenze di rime, frequenti assonanze, consonanze e rime ricche, endecasillabi irregolari di accenti e di misura, costituenti un mirabile canzoniere d’amore.
Diciassette sonetti in italiano allora, settantasette in piemontese ora (Stantesèt Sonèt, Centro Studi Piemontesi, 2015), a formare un libro dove la cadenza colloquiale è meno rara, dato anche il medium e l’anapesto su cui frequentemente si dispone. La coincidenza significato-significante si fa più stringente e lo scrigno del trovatore si apre in saggezza di più limpida scrittura. Sonetti di endecasillabi o, più spesso, di decasillabi, o anche di novenari o di versi derivati. Quello iniziale è formato da versi di tredici sillabe con frequenti rime baciate e rimalmezzo.
Il sonetto, gabbia d’altri tempi, è come un vecchio malato di solitudine, e per questo amato e vezzeggiato dal poeta intento all’arcolaio “che guaisce e frizza”. La sua trama è una cucitura fatta con lo spago impeciato del calzolaio.
E davvero frizzante è questo libro. Frizzante e corporale, il suo piemontese “da sensale”, che recupera le parole dimenticate e le sposa alle nuove, facendone una lingua di poesia aguzza di verità e germogliante in “slarghi di meraviglia”.
Qui la vita, ancorché sporca, ha il fascino del mago delle favole («la gata marela»), che prende il suo bene anche dal male. I pensieri più alti possono venire sedendo non su un «ermo colle», ma sulla tazza del water, mentre l’idea che il corpo sia tutto buono ci viene da un originalissimo, “socratico” asciugamano. La vita è deroga delle regole e le eccezioni sono rondini che scappano da burocratici faldoni. Come il mare può prendere la forma di una litania: «Mar dij barcon, e mar dij salvà / Mar ëd j’uman, e mar disuman / Mar dël Dirit. Mar dël Leviathan». Il vivere tetro, di angoscia e deformazione, può essere tale da richiamare la pittura di Grosz e da portare il poeta a prendersi in uggia.
La vita è “un gomitolo/ che si dipana senza fine”, un mistero la cui verità è paradossalmente colta dal bambino che svuota il mare col secchiello (il «sigilin» in rima con «sant’Agustin»): è lui che l’acciuffa “per azzardo”. Verità che fa tutt’uno con la luce: “due bambini non poco disinvolti/ che se ne vanno, la luce che li sogna”. Verità che sa essere anche gioia, come quella dei nipotini che danno fiducia nel domani, il loro sorriso e il piacere che «as taca fin-a ij dij marmlìn / mossant e frissonant come ’d gucin», “che si comunica fino ai mignoli / che friccicano e fremono come spilli”, anche se a volte essi fanno cose insensate e il nonno s’incanta a guardarli inebetito.
Il senso della morte, con il pioppo che diventerà cassa da morto, rinnova Pinin Pacòt e nell’ombra del bosco-chiesa ridesta il vento che spira dall’infanzia. In un sonetto monorimo c’è il cauto misurare le proprie risorse per allontanare la fine. C’è poi l’indole alfieresca, come nell’insonnia, quando il cervello è martellato dal tormento di non aver dato tutto il dovuto, o come nella corsa al Valentino, che scaccia i pensieri deprimenti e accoglie quelli graditi, una pratica sportiva o meglio un qualcosa di straordinario, perché “il meglio è sempre il figlio dell’impegno”. E c’è il vivido, meraviglioso quadro con la luna sbirciante e la rete da pesca delle nuvole sul cercatore di tartufi che loda il cagnuolo gioioso di scovarli.
Con la memoria torna la paura del martellare del padre per affilare la falce, che continua nella rima in -ìa alternata con quella in -à per tutto il sonetto, per giungere attraverso la rima «colp»: «contracolp» al “segno di una ferita”. Il vivo richiamo dell’infanzia in una tenera sera di campi concimati porta a godere “tutto il buono delle risonanze più puzzolenti”. I ricordi, le radici nel paese, saranno una risorsa di salvezza nel tran tran della città.
Le parole del luogo di origine gli daranno una lingua concreta, radicata nelle midolla, diseredata e robusta, da arricchire sui classici. “Abbiamo tutti qualche parola che si cura di noi” ricorda un po’ Pavese («Abbiam tutti una casa che attende»), ma le parole più amate si rifanno esplicitamente a Umberto Bellintani, alle sue parole-animali e parole-attrezzi di campagna, che si intrecciano in salvifica preghiera.
La parola poetica fiorisce come dalla bocca di Lazzaro risorto. La scrittura è infatti una resurrezione, perché parla della morte convertendola in redenzione. I versi-solchi cantano il ciarpame senza edulcorarlo, perché la poesia “non germoglia da una conchiglia”: nasce dal travaglio della memoria che brucia nel lampo di una ferita, da “una fucina di luce tra male e bene/ che fonde il filo dell’essere che si fa storia”. Essa è raggiungibile soltanto lasciandosi andare, “per rimescolare il cuore e il ventriglio”, i sentimenti e la corporalità.
Stantesèt sonèt è un apice della poesia in lingua piemontese. Dopo Nino Costa e Pinin Pacòt, Giovanni Tesio, poeta di svolte, dà a questa letteratura una decisa, coraggiosa scossa: pur prediligendo le forme chiuse e attingendo alla buona tradizione, le rinvigorisce con accenti nuovi, profondità di pensiero, freschezza di immagini icastiche e incisività di tratto. A quanti parlano di fine della letteratura («già tut scrit») risponde: “La parola è sempre in principio”. A chi nutrisse qualche dubbio estetico in merito al piemontese aggiungo: con Tesio è una lingua davvero sorprendente.