il bellissimo testo scritto da Giancarlo Pontiggia, poeta, critico letterario e scrittore italiano, per La Bella di Monza, l’iniziativa della Casa della Poesia di Monza nel roseto.
Quante rose nella storia della poesia: Aurora che ha «dita di rosa»; le Grazie dalle «braccia di rosa»; il bosco di meli sacro ad Afrodite, come scrive Saffo in uno dei suoi più bei frammenti, «tutto ombreggiato di rose». Per gli antichi il mondo era sacro, ma solo per i Greci il sacro assunse il carattere della bellezza e della compiutezza: e la rosa, sopra ogni altro fiore, parve loro rappresentare questo sogno di sacralità e di perfezione.
Certo anche per questo il fiore che era stato di Afrodite e di Iside si fa, in età cristiana, il fiore della Madonna, rosa mystica, «la rosa in che il verbo divino / carne si fece», come leggiamo nel Paradiso (XXIII, 73-74); e quando Dante giunge all’Empireo, non può che immaginare il mondo dei santi se non come una «candida rosa» (Paradiso XXI, 1), tra i petali della quale plana uno sciame di angeli-api il cui volto è di fiamma viva e le cui ali sono oro. Si dice, giustamente, che tutto è simbolo nel Paradiso dantesco: ma la potenza della poesia di Dante è che i simboli non cancellano mai la forza ruvida, sensibile delle cose del mondo: le sue rose continuano a restare rose, anche quando ogni suo petalo ha il volto di un santo.
Anche nelle purissime ventiquattro poesie francesi dedicate alla rosa, Rilke riprende l’idea della perfezione, ma in lui la rosa si fa – come in gran parte della poesia novecentesca – muta, enigmatica sembianza dell’invisibile, «gioia / di non essere il sonno di nessuno sotto tante / palpebre». Il desiderio di accogliere in sé il mondo, di farsene custode e pastore, si fonde con un senso di smarrimento e di finitezza che proprio la perfezione della rosa – la sua bellezza labirintica, vertiginosa – acuisce. Eppure, la richiesta del poeta è che essa divida con noi, smarrita essa stessa, ciò che non le appartiene: «questa vita, questa nostra vita» (Rose XXIV).
Non so se siamo così lontani dai versi, terribili e sfolgoranti, con cui Celan parla della «rosa di / Nulla, di Nessuno»: un Salmo in cui si sente l’urgenza di invocare il Dio che non c’è, proprio perché non c’è, proprio perché è dell’uomo il desiderio di «fiorire» incontro a qualcuno. Per questo, a nostro risarcimento, la memoria corre ai versi, onirici e confortevoli, di un meraviglioso Betocchi degli anni Trenta, dove il poeta evoca Un dolce pomeriggio d’inverno:
Un dolce pomeriggio d’inverno, dolce
perché la luce non era più che una cosa
immutabile, non alba né tramonto,
i miei pensieri svanirono come molte
farfalle, nei giardini pieni di rose
che vivono di là, fuori del mondo.
Chi non vorrebbe entrarvi, in quel giardino «di là», fuori del mondo eppure così pieno di mondo? Come anch’io vorrei essere tra voi, amici, tra roseti veri, dolci e odorosi, screziati degli infiniti colori delle cose del mondo. E vorrei salutarvi con questo mio breve distico, tratto da Bosco del tempo:
Ci avvincano le rose, e le tenebre
d’estate. E i tuoi scuri occhi,
vita.