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PREMIO LETTERARIO AURELIA JOSZ
La rivoluzione femminile in agricoltura
La CERIMONIA DI PREMIAZIONE si è svolta martedi 21 aprile ore 17.00 a Milano presso l’Arena Civica Gianni Brera, nella prestigiosa Sala Appiani gremita di pubblico.
Programma di sala
In apertura
Il deodara di Aurelia Josz tratto da Ribellioni di Antonetta Carrabs – Nemapress editore
Voce recitante Margò Volo
Introduce Antonetta Carrabs
Presidente Casa della Poesia di Monza
Conduce Alessandra Arcadu
Presidente Premio Letterario Aurelia Josz
Letture a cura di Carlotta Oggioni
Saluti istituzionali
Francesca Zajczyk
Delegata Pari Opportunità Comune di Milano
Francesca Dell’Aquila
Assessore alla Cultura Comune di Monza
Interviene
Carlo Severgnini
Presidente onorario Premio Aurelia Josz
Premiazione
Sezione narrativa
Primo premio a Paolo Cerruto con Diluvio ed Esposizione Universale
Premio Ferdinando Sarzi Sartori a Michele Toriaco
Premio Aurelio Giuseppe Heger a Michel Levi con L’attesa
Premio ADEI WIZO Milano a Yael Pepe con L’attesa
Poesia
Terza classificata Cristiana Vai con Se morissi
Seconda classificata Paola Manni con Quante Lune
Primo classificato Davide Rocco Colacrai con Nato a mezzanotte
Primo Premio a Davide Rocco Colacrai
È una poesia intensa che nella descrizione di un tempo notturno sospeso ed inospitale inserisce il destino umano, costruito di attese e pazienza, come lo spaventapasseri di paglia e stracci, aldilà della propria origine vivo. Si respira un rimando Shakespeariano.
Sono nato a mezzanotte
Sono nato a mezzanotte,
un minuto prima o un minuto dopo
cosa importa,
con una luna vedova a oziare,
e tre corvi che levigavano
col loro gracchiare in un eco da coltello
il cielo.Non ho radici e sono solo,
di una solitudine che non conosce nuvole
né spighe di grano,
con un piede all’ombra di parole
che inciampano,
con l’altro nel silenzio dei giorni,
fragile come il silenzio che si annida
nel respiro del vento.Dicono gli uomini che sono cattivo –
un nemico senza contorni –
un ammasso di stracci senza vita –
un croce di legno già triste perché senza destino.
In me c’è un cuore che si colora con le stagioni,
capace di arrossire,
e di commuoversi persino,
un cuore che sussulta alle stelle,
e che si lascia chiamare per nome,
un cuore custode d’ogni sogno di sangue;
qualche volta è una lacrima buona
a farmi sentire vivo,
altre volte è un seme di terra che germoglia
dal petto.Sono nato a mezzanotte –
in compagnia di una luna a forma di ciliegia –
al lamento di ruggine di tre corvi –
al dormiveglia delle orme della vita.Anch’io sono un uomo,
un uomo che si veste da spaventapasseri.
Secondo Premio a Paola Manni
Per ogni verso di questa breve poesia vale la pena aspettare di leggere altro e rimanere in attesa.
Quante lune
Quante lune ci domanda la vita !
troppe per un percorso di sassi e fango
Eppure
per un cielo autunnale che pare cenere
rimango.
Terzo Premio a Cristiana Vai
Con il ritmo costante della canzone ci parla del momento della fine come parte della vita, inserito nel mondo naturale e lo monda di ogni tristezza
Se morissi
Se morissi
in un giorno d’estate vorrei essere
girasole esausto di luceSe morissi
in un giorno di primavera
vorrei essere
fiore di magnolia esplosivo e fugaceSe morissi
in un giorno d’autunno
vorrei essere
ornamento blu di ortensia recisaSe morissi
poi in un giorno d’inverno vorrei essere
rosa cristallizzata dal gelo
bella come il primo giorno.
Premio Ferdinando Sarzi Sartori a Michele Toriaco
Il premio va a tutte e tre le poesie pervenute, per la passione che sanno trasmettere, verso le tradizioni e l’agricoltura e per i ricordi che riescono a suscitare.
La dolce perfezione di una giornata agricola
ad Attilio BertolucciIl temporale improvviso è durato poco
i cani sono tornati sullo spiazzo dove matura il gelso
li senti abbaiare svegli al forestiero
in transito per il sentiero bello verde e silenzioso
ora molle d’una pioggia estiva
che il contadino invoca con pazienza
ringraziando il cielo per i giorni che verranno.
Riprendono nei campi l’opere interrotte
a fatica si rivede il sole che ora bacia
quelle bacche rosse – incastonate tra i rami
di piante mature – ancora umide ma sempre dolci
colore e sapore d’una raccolta ormai prossima.
Presto le voci di queste giornate agricole
bruceranno d’una felicità aspettata
nell’aria azzurra e calda
che agli occhi stanchi porta una speranza nuova
un palpito che il cuore non ha sentito ancora.
Le ultime lucertole sui tronchi dell’ulivo
profittano del calore fino a che i giorni sul calendario
porteranno tempo buono ora dopo ora
in un lento confondersi di figure familiari
uomini e animali presi dallo stordimento
di stagioni e meraviglia
che sembrano non finire mai.
Dove il grano ingiallisce
Non è facile
scrivere una poesia sull’agricoltura
intesa come l’arte di saper aspettare
mi riesce invece più naturale
appollaiarmi
come la più piccola delle creature
sui rami bruniti di un albero
sotto il sole in mezzo al campo
dove il grano ingiallisce
tra il bel rosso dei papaveri
in un certo giorno
del ventunesimo secolo
e guardando all’ingiù
non avere altro da fare
che pensare
a che distanza mi trovi
da quelle spighe
falciate da mio nonno contadino
mentre i carri della guerra
arrugginivano ancora nei fossi
e chiedermi
se oggi importi a qualcuno
che sapore aveva il pane
fatto in casa da mia nonna
quando il futuro
era soltanto un’ombra sottile
sulla meridiana della vita
e i poveri sogni
scavavano con la zappa
negli strati più duri
della terra e della fame.
Sulla terra che fiorisce
ad Attilio BertolucciSulla terra umida di nebbie cade il mosto selvatico dell’autunno,
il sole che esce dal chiuso di nuvole grigie di colpo saluta
l’allegra compagnia dei vendemmiatori, nella vigna di mio padre
dove il tempo si consuma lento, in un mischiarsi di voci che si confondono
e si perdono dietro carri agricoli umidi di fango, colmi di quell’uva di manna
bene primario per l’esistenza della famiglia. Ma è il tempo a decidere
la rendita più ricca della nuova stagione, se anche d’estate cieli nuvolosi
e insetti maligni lasceranno i frutti maturare in pace.
Vivono, braccianti e piccoli coltivatori, la loro età gravosa
in questa provincia meridionale, non so se la più cara
e amata, l’età del secondo dopoguerra (dei bombardamenti
non s’è perduta ancora la memoria), qui dove è regola
di galantuomini stendere contratti, per i possessi
in via d’accrescersi, sulla parola, alle strette di mano.
Raffaele, il primo di quattro maschi, nei suoi giorni infantili
a scuola non ha tempo di pensarvi ché la sua stagione
muta svelta e lui a vent’anni, per poco lontano dalle fatiche dei campi,
faticherà seduto sul robusto d’un banco di legno brunito,
in aule severe all’Istituto Elementari S. Giovanni Bosco…
Ragazzo contadino, riluttante all’abbecedario, allievo già grande,
nel dopolavoro serale, che impara a leggere in un tempo
di ferite postbelliche in via di guarigione e semine da ridestare.
Dietro il capanno di paglia si sta per un allentamento del ritmo,
a mezzogiorno, consumando un pasto breve con pane e uva
sull’erba in cui affondano ciuffi di malva e qualche passero.
I lavori si ripetono a intervalli ordinati, da un anno all’altro
in giorni irreversibili. Già in piedi, mio padre aguzza l’ingegno
sulla terra vergine e la fa fruttare, la tenacia soltanto mostrando
a tutti d’una forza che commuove. È il suo vessillo rustico, la forza
di una giovinezza mai tradita, cresce soffrendo la consuetudine
degli anni che passano, in prospettiva di trofei da cogliere
salutando vittorie necessarie.
Sezione Narrativa
Primo Premio a CERRUTO PAOLO
((se lunga aggiungi la classe: font-serif))
titolo
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Diluvio ed Esposizione Universale
1 agosto 2015
Vi scrivo da un sottotetto di porta Venezia, dove fortunatamente vivo. Oggi son tre mesi che piove ininterrottamente su quasi tutta la pianura Padana, in particolare sulla nostra provincia. Il tg dice che l’acqua ha raggiunto l’altare del Duomo. Ha iniziato a piovere il primo maggio, giorno di inaugurazione dell’Expo, e non ha più smesso, con una media di più di tre centimetri d’acqua al giorno. Nutrire il pianeta è il sottotitolo dell’esposizione universale, e il pianeta Terra ha voluto prenderci in giro, o forse sottolineare quanto lo stiamo sfruttando e maltrattando. Le ultime colate di cemento su Milano hanno coperto gli spazi verdi residui, gli unici in grado di assorbire l’acqua. I campi coltivati sono stati soffocati da chilometri di autostrade e monumentali opere inutili. Tutto questo perché viviamo di fretta e assecondiamo la frenesia di un’epoca di monumentale arroganza, che non rispetta i cicli della terra. L’asfalto ha fatto da fondale dell’immensa piscina che è diventata Milano. Dalla finestra osservo il canale Buenos Aires, finalmente libero da insegne e turisti; in lontananza si vedono spuntare le chiome degli alberi del parco di Palestro, private dei tronchi, sembrano quasi mangrovie. Tutti gli abitanti degli scantinati e dei piani terra si son dovuti trasferire; i prezzi delle case dal secondo piano in su sono schizzati alle stelle. I più ricchi, insieme ai catastrofici, si stanno accaparrando gli ultimi livelli dei grattacieli; i senzatetto hanno occupato la Torre Galfa, vicino alla stazione Centrale. I più lungimiranti, tra cui il sottoscritto, hanno acquistato una canoa gonfiabile da Decathlon in piazzale Cairoli, poco prima che venisse sommerso insieme alla rete della metropolitana. I primi giorni era bello vedere il fossato del Castello pieno d’acqua; da piccolo credevo che gli Sforza ci tenessero dei coccodrilli. A Milano piove da tre mesi e finalmente l’aria si è pulita, nessuna macchina che circola, galleggiano tutte verso la periferia o nei loro box sotterranei. Fuori dal centro, e nel resto della grande piana ipermercata, la situazione è migliore, i campi sono riusciti ad assorbire questo diluvio. La città, spiegano i telegiornali, è come se fosse una conca, una depressione, e pertanto è diventata un’enorme pozza. La protezione civile ha provato a pompare via l’acqua, ma la pioggia incessante li ha fatti desistere; sarebbe come voler spalare l’acqua del mare. I milanesi e i turisti della fiera sono fuggiti in vacanza; l’immensa area Expo è rifugio di anatre e pesci, liberati dagli acquari dei ristoranti, scoppiati per la pressione. Siamo rimasti in pochissimi in città, anche perché tra due settimane è ferragosto. Io, con la mia preziosa canoa, sbrigo commissioni per gli anziani vicini e vivacchio di questo. Gli unici negozi aperti sono le farmacie e alcuni piccoli alimentari; i supermercati sono allagati e privi di rifornimenti. Ogni sera remo fino al barcone sul Naviglio, che ormai è l’unico posto dove andare a farsi un goccio. Nessuno mi potrà ritirare la patente. Finalmente amo queste strade, private di sensi e controsensi, di una qualsiasi regola di viabilità; l’acqua è stata democratica, ha coperto tutto allo stesso modo, lasciando una Venezia senza ponti e una Milano senza Area C o problemi di traffico e parcheggio. In tutto il mondo, dicono i telegiornali, si parla di questo particolarismo climatico e dell’Expo fallito; ci si chiede se ci sia un nesso tra il diluvio e il fatto che si stia riversando in una delle zone più inquinate d’Europa. Una delle zone dove l’agricoltura è stata sostituita dalla produzione industriale. Io so solo che vorrei che non smettesse mai, e la città rimanesse così, muta e sospesa, come l’avevo vista in certe notti di neve copiosa. Finalmente Milano si è fermata; doveva avere tantissimo sonno, e noi che la svegliavamo di continuo, con quei maledetti clacson. Amo percorrere queste vie canali di notte, quando piove leggero e i lampioni si riflettono come miriadi i lune piene. Vorrei rivedere le stelle, questo sì. Ma non mi azzardo a chiedere altro a un pianeta da cui abbiamo già preteso troppo. Mi sta bene così. Milano, 2 agosto 2015, stanotte devo aver bevuto più del solito, mi sveglio che sono le cinque di pomeriggio. Scendo le scale con il mal di testa, devo recuperare sigarette e caffè per colazione. Mi affaccio dalla finestra sulle scale e scopro che non c’è la mia preziosissima canoa. Qualcuno l’ha rubata! Dopo qualche imprecazione fermo il primo motoscafo della Polizia e spiego la situazione; pattugliamo mezza città alla ricerca del ladro, tanto gli agenti non hanno un cazzo da fare, mi confessano. Vedo la canoa nei pressi della stazione Lambrate; la rematrice, scopro sbigottito, è la mia anziana e vispa vicina di casa. Dice che oggi è l’anniversario della morte del marito e deve andare a trovarlo per forza. Aveva provato a svegliarmi bussando e suonando il campanello, ma effettivamente ho il sonno pesante. Mi aveva anche lasciato un biglietto sulla porta che non ho letto, uscendo intontito. Ad ogni modo ringrazio gli agenti e mi offro di accompagnare la vicina al cimitero Lambrate, in religioso silenzio. Mi viene da pensare a mio nonno. Mio nonno piantò alberi che non vide mai fiorire e pianse amici che non vide più tornare; così, indirettamente, mi ha insegnato la pazienza e la sua serena rassegnazione. Mi ha trasmesso l’arte dell’ascoltare il vento e il silenzio dei boschi. Il cielo piange da mesi per questa terra sfruttata. A fatica ci muoviamo tra lapidi e cipressi. La signora mi indica la strada, mentre sudo e bestemmio tra i denti per la fatica; qui vicino scorre il fiume Lambro, che crea una forte corrente. Il mausoleo di famiglia è completamente sommerso; spunta solo un angioletto. La vicina non riesce a darsi pace, vuole assolutamente veder la foto del defunto coniuge e cambiare i fiori, che poi sarebbero delle rose rosse che ho trovato qualche giorno fa da un cingalese in zona Navigli, dopo ore di ricerche. Mentre provo a legare la cima a un tronco la vecchia si tuffa, non so se per raggiungere la tomba o il marito. Ad ogni modo cado anch’io in acqua e con fatica riesco a risalire sulla canoa. Faccio in tempo a scorgere il suo corpo scomparire in un vortice. Provo ad avvicinarmi ma tutto quel che riesco a recuperare è il suo cappello di paglia. Sarà felice, penso. Prego in silenzio per quella vecchia pazza. Inizia a fare buio, sotto una leggera pioggerella. Mentre remo verso casa si accendono le finestre. Spero che piova per sempre sul dolore di questo mondo. Spero che il dolore sappia trasformarsi in coscienza, e che quando la città si asciugherà pianteremo più alberi e allargheremo i parchi. Per insegnare l’attesa nell’epoca dell’immediatezza, come ha fatto mio nonno con quegli alberi di ciliege, piantati per gli occhi e le bocche dei suoi nipoti.
Premio Aurelio Giuseppe Heger a Michel Levi
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L’attesa
Tempo che scorre,
sabbia fra le mani,
battito di tempo.
Le lancette girano,
secondo dopo secondo,
minuto dopo minuto,
ora dopo ora.
Giorni, settimane e mesi
passano e in men
che non si dica sono anni
e così una vita intera.
Col tempo le stagioni,
così autunno, inverno,
primavera ed estate.
Foglie che ingialliscono, neve che cade,
fiori che sbocciano
e il sole che va su e giù,
come l’alternarsi di un’altalena,
ma niente può fermarlo.
Troppo intenso, troppo veloce,
tanto che hai voglia
di tornare indietro
ma, nel frattempo, non
puoi fare altro che
andare avanti.
Non dipende da te.
Il tempo è re del popolo
E l’uomo non può
che seguirlo
o farsi travolgere.
Emozioni forti o meno,
lacrime che scivolano,
di gioia o di dolore
poco importa
quanto il fatto che vivi.
Questa è la vita,
un’attesa continua,
un implacabile tormento,
una meravigliosa sorpresa.
Questo dipende da te.
Premio ADEI WIZO Milano a Yael Pepe
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L’attesa.
Seduta sotto una pensilina sfoglia nervosamente l’inserto di un quotidiano scandendo con pesanti colpetti di tacco gli interminabili minuti di attesa di un autobus che evidentemente si è perso sulla strada. Lui la guarda dal chiosco dell’edicola di fronte alla fermata, un’attività ereditata dal padre come una croce. Quel claustrofobico gabbiotto che dapprima si era rassegnato ad occupare come un umile recluso si è trasformato col tempo in un eccezionale punto di osservazione. Da lì scorge giovani annoiati in giubbino similpelle acquistato dai cinesi, mamme sudamericane dai fianchi generosi e i capelli raccolti, vecchi strategicamente miopi per non percepire i contorni di quei mostruosi edifici popolari che sono costretti ad abitare, ma anche giovani artisti con occhi colmi di speranza e poesia. Un carico di vite che a quella fermata viene raccolto e smistato tra uffici, call center, fast food o sempre più di frequente centri per l’occupazione. Lui ama osservare e riconoscere quella gente e ha imparato a scrutare nelle loro anime e a leggerne ansia, gioia, assenza. Quella donna non l’ha mai vista prima. Bella ma non troppo, il corpo avvolto in un impeccabile trench color antracite. Rapito da un inspiegabile curiosità inizia a costruirne la storia. Cresciuta troppo in fretta in una famiglia borghese dove l’apparenza era tutto, le pareva di non avere mai goduto appieno della sua prima giovinezza presa com’era dall’impegno incessante d’inseguire un modello che l’avrebbe caricata di ansie e insicurezze. Una grande passione per la storia che aveva scelto di intraprendere come facoltà, una scienza che le permetteva di collegare uomini ed eventi per comprendere quanto ciclicamente tutto si ripetesse. Con la stessa ciclicità si ripetevano le sue scelte sentimentali: uomini spesso molto più grandi di lei che le pareva potessero darle un senso di sicurezza e stabilità ma che puntualmente si rivelavano egocentrici ed inaffidabili. Conosce poi Marco, suo coetaneo, un animo sensibile e disperatamente fragile. Marco è cresciuto in strada, Marco è tossicodipendente ma lei lo vuole salvare. Il ragazzo dell’edicola bruscamente smette di immaginare. Quell’autobus ingoia un’altra vita e lui non saprà mai se lei salverà Marco o se Marco distruggerà lei