DI CARMELA TANDURELLA – 13 APRILE 2016
La Casa della Poesia di Monza racconta l’autore di Marradi: col romanzo di Laura Pariani, gli studi di Gianni Turchetta e Simona De Simone e la voce di Laura Piazza.
C’è una scrittrice lombarda che vive sul Lago d’Orta ma ha vissuto e viaggiato anche in Argentina, che all’Argentina è legata da tanti fili della sua storia familiare e personale, e che quel Paese ha più volte raccontato in modo intenso e straordinario; è una scrittrice vera, appassionata e appassionante, autrice di molti bellissimi romanzi, tra le poche, in Italia, che meritano di restare, di entrare nelle antologie. C’è, nelle pagine dei libri e nella memoria di chi ama la letteratura, un poeta grandissimo, nato verso la fine dell’Ottocento in un piccolo paese tosco-romagnolo dal quale ha desiderato fuggire verso i grandi spazi del Sud America, un poeta inquieto e vagabondo il cui Viaggio a Montevideo è uno dei testi più affascinanti della poesia del Novecento, ma il cui viaggio reale in Uruguay e in Argentina è avvolto nel mistero, non se ne conosce quasi nulla di concreto. E’ sulle tracce di lui, Dino Campana, che si è messa a suo modo lei, Laura Pariani, traendone un romanzo pubblicato lo scorso anno da Einaudi, “Questo viaggio chiamavamo amore”.
C’è poi Gianni Turchetta, ordinario di Letteratura Contemporanea all’Università di Milano, che si è sempre occupato, da studioso, di Dino Campana, scrivendone una biografia pubblicata nel 2003 e ormai purtroppo esaurita, e c’è Simona de Simone, del direttivo della Casa della Poesia di Monza, che già lo scorso anno ha recensito per la rivista L’Indice il romanzo di Laura Pariani: percorsi che si intersecano e che incontrano l’interesse sempre vigile di Antonetta Carrabs ed Elisabetta Motta. Le quali non mancano l’occasione di proporli al pubblico monzese nell’ambito del programma di Mirabello Cultura 2016, affidando alla bella e bravissima Laura Piazza, attrice e dottore di ricerca in italianistica, la lettura di alcuni dei più bei componimenti di Campana. Così ha preso vita un pomeriggio di straordinario intrattenimento culturale, oltre che di riflessione e di stimolo alla conoscenza, come è stato quello di venerdì 8 aprile 2016 al Teatrino di corte della Villa Reale di Monza.
Dino Campana è per Laura Pariani un antico amore, come ci informa Simona de Simone, ricordando che già in Patagonia blues (Effigie, 2006) i versi del poeta accompagnavano il ritorno della scrittrice in quelle terre del Sud del mondo percorse da adolescente alla ricerca del nonno che vi era emigrato quarant’anni prima per motivi politici prima senza far più ritorno. Campana non era un poeta di quelli che la scuola in genere ti propone: negli anni ’60, poi, quando Laura Pariani frequentava il liceo, la poesia del ‘900 era quasi del tutto ignorata, e l’opera di Campana sembrava quasi irrilevante: solo il suo spirito di contraddizione, confessa, l’aveva spinta a leggere quel poeta che, come ricorda Gianni Turchetta, era anche accompagnato da una fama ambigua e oscura, a causa della sua esistenza randagia, della biografia tormentata.
Già la stranezza di essere, in un piccolo paese come Marradi, uno che ama solo leggere, gli aveva procurato uno stigma incancellabile. Nonostante si fosse adattato agli studi di chimica consigliati dalla famiglia, i meno consoni alle sue attitudini e inclinazioni, rimarrà per chi gli sta intorno uno spostato, tanto poco considerato dalla intellighenzia del tempo che Ardengo Soffici perderà il manoscritto che il poeta gli aveva consegnato perché ne valutasse la pubblicazione e che verrà ritrovato solo negli anni settanta tra le sue carte. Dopo la morte in manicomio, avvenuta nel 1932, Campana diverrà per i critici “il Rimbaud italiano”, l’unico nostro poeta, allora, che non fosse anche un professore come Pascoli o Carducci; un poeta le cui inquietudini venivano attribuite a un malessere privato e personale, mentre non facevano che riflettere le tensioni della società del suo tempo trasformandole in poesia.
Anche del viaggio in Argentina di cui parlano i suoi versi si rilevava soprattutto il carattere onirico. Ma quando, nel 2002, Laura Pariani era stata a Bahia Blanca, porta d’ingresso della Patagonia argentina, aveva incontrato tanta gente che parlava di Campana, che raccontava storie sul poeta e la portava a vedere i luoghi legati al suo ricordo. Allora, quel viaggio che si pensava immaginario, le pagine trasudanti le impressioni di quell’immenso spazio sudamericano che si pensava fossero frutto di un delirio, cominciarono per la scrittrice ad assumere i contorni di una realtà forse davvero vissuta. Così riprese in autobus, da Montevideo a Bahia Blanca, il percorso che il poeta poteva aver seguito, guardando quello che lui poteva aver visto.
Su questo viaggio Laura Pariani ha costruito un romanzo in cui gli incontri e le esperienze sudamericane sono rievocati da una realtà opposta, quella del manicomio di Montepulci dove il poeta trascorse rinchiuso gli ultimi quindici anni della sua vita. Perchè, dice la scrittrice, ha cercato di immaginare cosa aveva potuto dire quella prigionia per uno come lui, con la sua sete di viaggio, il suo bisogno di uscire dalla piccola realtà di Marradi, dallo stretto della famiglia, con la sua voglia di incontri entusiasmanti, di libri, di cose nuove, di lingue nuove. Cosa doveva voler dire, per uno che aveva amato solo il viaggio, non poter più godere della vastità dello spazio che si può godere nel Sud America, uno spazio che esplode come la vera vita, che ti fa vedere davvero ogni nuovo giorno come una possibilità nuova…
Nella sua reclusione, Campana riceveva periodicamente le visite del dottor Pariani (sorprendente omonimia tutta reale!): uno psichiatra di formazione lombrosiana che stava scrivendo un saggio sul rapporto tra genio e follia, e che ci ha lasciato una sua biografia del poeta. Alla sua indagine, alla sua evidente incapacità di comprendere le ragioni della poesia, il poeta reagiva sfuggendo e provocando l’amarezza del medico, esplicita nei suoi resoconti. Ma nel suo apparente rifiuto di relazionarsi con l’altro, il Dino Campana immaginato da Laura Pariani vive in realtà una intensa comunicazione mentale con i più diversi personaggi, reali o immaginari, incontrati nella vita o nelle letture. Scrive mentalmente lettere che non avranno risposta, “lettere al mondo che a me non scrisse mai”, come dice Emily Dickinson. Quel che in questo modo l’Autrice vuol restituire al lettore è l’immagine che il poeta stesso aveva di sé, ben diversa da quella che appariva agli altri: ”La mia vita era tutta un’ansia del segreto delle stelle”.
Simona de Simone si chiede se questo romanzo non rappresenti per l’Autrice una presa di posizione rispetto al mondo che rifiuta la diversità, una rivendicazione del diritto a fare della propria vita una poesia nonostante l’ostilità ad essa delle madri, come quella di Campana. Laura Pariani ammette, pensando anche a Leopardi, che uno studio intorno all’influenza di certe madri sulla vocazione poetica dei figli potrebbe essere davvero illuminante, ma lo lascia agli specialisti. Quanto invece alla fatica di farsi accettare nella propria passione per la scrittura, davvero ne rivendica la piena condivisione: bisogna essere testardi per fare l’artista, tutti ti dicono che sei matto. In questo senso le è stato sicuramente facile identificarsi con uno come Campana, che di rifiuti ne ha ricevuti tanti, anche da quelli che venivano considerati le menti più eccelse e che gli apparvero in realtà come degli sciacalli.
Su questo viaggio Laura Pariani ha costruito un romanzo in cui gli incontri e le esperienze sudamericane sono rievocati da una realtà opposta, quella del manicomio di Montepulci dove il poeta trascorse rinchiuso gli ultimi quindici anni della sua vita. Perchè, dice la scrittrice, ha cercato di immaginare cosa aveva potuto dire quella prigionia per uno come lui, con la sua sete di viaggio, il suo bisogno di uscire dalla piccola realtà di Marradi, dallo stretto della famiglia, con la sua voglia di incontri entusiasmanti, di libri, di cose nuove, di lingue nuove. Cosa doveva voler dire, per uno che aveva amato solo il viaggio, non poter più godere della vastità dello spazio che si può godere nel Sud America, uno spazio che esplode come la vera vita, che ti fa vedere davvero ogni nuovo giorno come una possibilità nuova…
Nella sua reclusione, Campana riceveva periodicamente le visite del dottor Pariani (sorprendente omonimia tutta reale!): uno psichiatra di formazione lombrosiana che stava scrivendo un saggio sul rapporto tra genio e follia, e che ci ha lasciato una sua biografia del poeta. Alla sua indagine, alla sua evidente incapacità di comprendere le ragioni della poesia, il poeta reagiva sfuggendo e provocando l’amarezza del medico, esplicita nei suoi resoconti. Ma nel suo apparente rifiuto di relazionarsi con l’altro, il Dino Campana immaginato da Laura Pariani vive in realtà una intensa comunicazione mentale con i più diversi personaggi, reali o immaginari, incontrati nella vita o nelle letture. Scrive mentalmente lettere che non avranno risposta, “lettere al mondo che a me non scrisse mai”, come dice Emily Dickinson. Quel che in questo modo l’Autrice vuol restituire al lettore è l’immagine che il poeta stesso aveva di sé, ben diversa da quella che appariva agli altri: ”La mia vita era tutta un’ansia del segreto delle stelle”.
Simona de Simone si chiede se questo romanzo non rappresenti per l’Autrice una presa di posizione rispetto al mondo che rifiuta la diversità, una rivendicazione del diritto a fare della propria vita una poesia nonostante l’ostilità ad essa delle madri, come quella di Campana. Laura Pariani ammette, pensando anche a Leopardi, che uno studio intorno all’influenza di certe madri sulla vocazione poetica dei figli potrebbe essere davvero illuminante, ma lo lascia agli specialisti. Quanto invece alla fatica di farsi accettare nella propria passione per la scrittura, davvero ne rivendica la piena condivisione: bisogna essere testardi per fare l’artista, tutti ti dicono che sei matto. In questo senso le è stato sicuramente facile identificarsi con uno come Campana, che di rifiuti ne ha ricevuti tanti, anche da quelli che venivano considerati le menti più eccelse e che gli apparvero in realtà come degli sciacalli.
Il libro di Laura Pariani non è una biografia, chiarisce Gianni Turchetta: è un romanzo costruito sapientemente, giocato su due tempi e due scenari che si alternano, l’Argentina nel 1907, il manicomio di Montepulci nel 1930. Per quanto il titolo sia tratto dal carteggio con Sibilla Aleramo, la storia di questa relazione vi è solo accennata e anche le vicende relative al rapporto coi circoli letterari del tempo rimangono sullo sfondo. Altri racconti sono stati costruiti attorno alla biografia di Dino Campana, alcuni cinematografici, come quello del 2002 con Michele Placido e Olga Karlatos, dove emerge la vicenda amorosa o quella della reclusione vista in chiave antipsichiatrica, ma dove la poesia non ha molto spazio. Nel film diPupi Avati Il giorno più lungo viene invece messo in questione il rapporto con la madre che il protagonista, interpretato da Gianni Cavina, rievoca nei colloqui con lo psichiatra.
Nel libro di Laura Pariani, più dinamicamente lo spazio della reclusione viene contrapposto nel ricordo allo spazio della libertà, mettendo in gioco anche il paesaggio e la natura, il senso della terra: nei quali c’è felicità, una pienezza di vita che fa risaltare il dolore della reclusione, dell’esclusione. Fra le righe scorre sottilmente un doppio autobiografismo, quello relativo al poeta e quello che riguarda l’Autrice, esaltato dalla omonimia con lo psichiatra. Dei trentuno capitoli, dieci sono narrati da una voce esterna, onnisciente, venti dallo stesso Campana che diventa narratore interno, e sono questi ad essere introdotti o inframezzati dai suoi versi. E’ questo narratore interno, in quei capitoli, il portatore della verità, o meglio c’è nel dialogo mentale continuo, epistolare o telefonico, con altri personaggi, una continua ridiscussione dello statuto della verità.
Ne è un esempio, ironico e tagliente, anche la lettera immaginaria a un dirigente dell’ISTAT, o quella a Edison, evocato per via del “delirio elettrico” da cui sarebbe stato affetto il poeta. Insomma, il “matto” non fa altro, nella sua mente, che comunicare e asserire le sue verità. E’ in questi “passi nel delirio” che troviamo ribaltata la realtà della ultrasolitudine del manicomio e della chiusura di Campana nei confronti dello psichiatra. Per altro, proprio Campana è stato il primo in Italia a leggere, in tedesco, Freud e Abraham! Le tante lettere a diverse donne contrastano con l’immagine tradizionale di Campana privo di relazioni amorose, mentre quella alla madre, le cui periodiche fughe avranno certamente avuto un peso sulla psicologia del figlio, è centrata sulla incapacità di comprendere la poesia. Analogamente, gli incontri rievocati mettono in gioco una forma di opposizione al conformismo. L’infelicità di Campana non è mai rappresentata in maniera patetica, pietistica, anzi, la sua vitalità è messa bene in scena da Laura Pariani. Liberato dagli stereotipi che hanno fatto da filtro alla sua lettura e comprensione, il poeta dei Canti Orfici ci appare come uno di noi, preso dalle inquietudini profonde che sono anche le nostre, ma anche disponibile a considerare, come il suo interlocutore Regolo, che “ogni fenomeno è per sé sereno”: capace, insomma, di coltivare in sé quella “arcana felicità” di cui parla Franco Fortini.
Carmela Tandurella
Per gentile concessione di Vorrei.org