Ospitiamo con piacere l’intervento scritto da Fabio Franzin – membro del Comitato Poetico Letterario del CRS Durini – Centro di Ricerca e Studi per le lingue dialettali e minoritarie europee promosso da La casa della Poesia di Monza, e ringraziamo per il contributo.
Fabio Franzin: Con la lingua stretta in una morsa
Per un poeta dialettale, o neodialettale (come è uso dire negli ambienti letterari per distinguerlo da chi, usando una lingua minore, non si scosta dall’ombra asfittica del campanile paesano, e quindi dal vernacolo), dire qualcosa di proprio intorno al tema o al problema del dialetto, di questi tempi, non è così facile, c’è, innanzitutto, il rischio di incappare nei fraintendimenti cui una fede, qualunque, va sempre soggetta. Non è facile innanzitutto motivare la scelta espressiva (se mai scelta è; e poi spiegheremo perché); esso, lo scrivente in dialetto, in questa epoca si trova come stretto fra la morsa di due entità, due forze ostinate e contrarie, citando Fabrizio De André (un cantautore che, guarda caso, ha usato, indagato il dialetto fra le sue canzoni): da una parte chi vaticina, da anni, la fine o perlomeno l’attuale inutilità della poesia in dialetto, e del dialetto stesso; dall’altra la recente proposta di un disegno di legge che vorrebbe imporre il dialetto come lingua di studio nelle scuole dell’obbligo. Entrambe le forze, assertive e propositive, pur nelle ragioni del loro porsi nel contesto del tessuto letterario la prima, in quello sociale la seconda, a mio modo di vedere, e di sentire, non del tutto condivise, e tutt’altro che convincenti.
Ma veniamo con ordine, e prendiamo ad analizzare le ragioni esposte da chi, in qualche modo, vorrebbe decretare l’assoluta inutilità, in questo periodo storico, della letteratura, in specie della poesia, in dialetto. Uno degli assertori più convinti fra essi è Flavio Santi, poeta, narratore e critico letterario di levatura che, in In difesa della Minkiata Galattica (ovvero: il dialetto è morto?; ovvero: il dialetto è poi così inutile?) apparso on-line il 4 luglio 2004 sul noto sito “Nazione indiana” afferma: “Ora come ora, non si può che scrivere in dialetto dandosi la rituale zappa sui piedi. Il dialetto affinato da chi scrive, a parte il lavaggio e l’apprettatura dei grafismi e delle griglie ortofoniche, è un idioletto, morto al dialetto del vocante. Con rischi altissimi: stabilitone il carattere artificioso, altrettanto legittimo sarebbe scrivere in aramaico o in antico egizio”. E poi conclude: “Oggi di dialetto si muore. (Questa suggestione farà accapponare la pelle a qualcuno, ma lo sfido a spiegare a un giovane vissuto nell’insulina televisiva, nella fiducia che il reale sia catodico, a cosa possa servire ancora il dialetto e in particolare in poesia, se non lo si vede come una delle tante fasi terminali di quella lunga malattia chiamata lingua.)“. Pur nutrendo il massimo rispetto per Santi, che so studioso serio, tanto che non oso assolutamente mettere in dubbio la sedimentazione in lui delle sue convinzioni (ma vorrei ricordare, per un quadro più oggettivo della questione, che egli ha iniziato la sua carriera letteraria proprio come apprezzato poeta in dialetto, nella fattispecie in friulano) – e dichiarando che ho usato egli per praticità e perché meglio di altri suoi sodali mi pare esprimi con efficacia le ragioni della questione – ciò che salta subito agli occhi, nei due stralci del suo discorso qui riportati, sono: 1) certificata l’artificiosità delle lingue minori – ma mai minori in chi le sente proprie, vorrei chiosare – asserire che altrettanto legittimo sarebbe scrivere nelle cosiddette “lingue morte”, cioè non più parlate; 2) quel bisogno di dover spiegare, in un certo senso di dover motivare, ai giovani cresciuti nell’insulina televisiva, nella fiducia che la realtà sia davvero quella che appare dentro lo schermo, le ragioni o le costrizioni, aggiungo, le ossessioni della scelta espressiva di un artista, di uno scrittore, semmai poi a tale campionario di soggetti interessino davvero le questioni della lingua e della letteratura.
Due asserzioni che si intrecciano in una, in un problema che, da qualunque parte della treccia lo si indaghi, continua a mostrare lo stesso nodo. Perché, a mio vedere, chiedere a un poeta di usare un’altra lingua per esprimersi, sarebbe un po’ come imporre ad uno scultore armato da sempre – per sua scelta, e anche per la sua storia – di mazzuolo e scalpello, di usare, per esempio, il laser. Achille Serrao, noto poeta e studioso di poesia dialettale, un giorno mi disse: “non è il poeta che sceglie la lingua in cui scrivere, ma è la lingua che sceglie il poeta”, e questa frase contiene, in fondo, una grande verità: la libertà di espressione di un artista a intrecciarsi col primato della lingua, degli strumenti, nella storia dello stesso. Perché un conto è la capacità di un artista, certo connaturata anche al suo personale percorso di ricerca, di manipolare e scambiare a piacere gli strumenti del suo operare, e un’altra è il sigillo che le sue vicende esistenziali imprimono agli strumenti con cui si esprime.
Nel mio caso il dialetto si è imposto in me come lingua assoluta nonostante non sia propriamente la mia lingua-latte, per dirla alla Zanzotto; io, nato a Milano da genitori veneti che in veneto sono tornati quando avevo sette anni, ho dovuto impararlo allora, proprio come si impara una qualsivoglia altra lingua; però essa si è impossessata, quasi da subito, della mia interiorità, vorrei poter dire, della mia anima (chissà per quali misteriosi recessi, o ramificazione genealogica, in quale curva elicoidale del d.n.a), relegando l’italiano in una zona limitrofa, nella sede dove riposano gli aspetti più “tecnici” della mia scrittura; è stato un vero e proprio assalto da parte dell’idioma dialettale quello scatenatosi in me, cui per un certo periodo ho anche tentato, e strenuamente, di difendermi, forse proprio per le ragioni succitate di Santi, nonostante sentissi, con la più assoluta certezza, che il dialetto era ormai la mia lingua più intima. Capitava che avessi tutta in mente una poesia, i suoi passaggi, i suoi snodi sintattici, e mi mettessi al tavolino per scriverla, in italiano, ma le parole suonavano così algide, frigide, artificiali in un certo senso, distanti anni luce dalla sorgente che me le aveva sussurrate; poi ho capito che l’epifania, che l’ispirazione era sgorgata fra le ortiche e le erbacce poste a custodia dei lemmi dialettali nei prati abbandonati, coperti di nebbia, attaccati ai calzettoni di lana, come pètoe [1], aleggiando fra le voci dei giocatori di briscola delle osterie in cui, da bambino, andavo a comperare le MS per mio padre… voci lontane, sì, echi di un mondo ormai mutato, certo, ma suoni con cui debbo misurare i miei versi, nell’intonazione, nel respiro, anche oggi, perché altrimenti quel suono si fa partitura sghemba, il canto stonato, il discorso pesante come il pistolotto di un politico. E’ così anche nell’amore, no? Quando le ragioni imposte dalla razionalità e dalla convenienza sono costrette a soccombere a quelle del sangue, all’inestinguibile richiamo che viene a rimare con i nostri istinti più segreti, spesso segreti persino a noi stessi. Allora anche le pur valide ragioni decretate da Santi, e da tutti coloro che intonano la nenia funebre di queste lingue minori, vacillano, si appannano le figure, gli araldi svettanti sulle torri di un presupposto impero. Prendi Biagio Marin, per esempio, e prova a immaginare i suoi versi in lingua, se ci riesci, o togli a Loi la sua lingua impasto… alcuni poeti, dei problemi che i critici o i sociologi sollevano intorno alle lingue cosiddette minori se ne fanno, giustamente, un baffo. Essi devono creare, per essere se stessi, compiutamente, e sono in grado di creare solo con gli strumenti che il destino ha affidato loro in sorte, tutto il resto sono chiacchiere da sala d’aspetto. E certo tale tara, per essi, deriva dalla propria vicenda umana, dall’estrazione sociale, a volte, dagli ambiti in cui si è mossa la loro esperienza. Nel caso mio, l’aver vissuto gran parte della mia vita in un quartiere popolare dove il dialetto era l’unico linguaggio che echeggiava fra la biancheria stesa sui fili e i “filò” improvvisati fra le recinzioni degli orti, la sera, o l’aver lavorato come operaio per trent’anni in una fabbrica del nord-est, credo abbia influito non poco, oltre alla succitata elettività naturale a questo linguaggio, di fissarsi in me come idioma imperante.
Motivate, credo, le ragioni per cui un poeta resta abbracciato a una sua lingua nonostante l’aria intorno echeggi cupa nel canto della cronaca di una morte annunciata, prendiamo ora in esame l’altra forza, l’altro morso che stringe la lingua dello stesso, alle speculazioni che si muovono intorno alla moribonda in questione, non si sa se come medici, preti con l’olio santo o solo avvoltoi.
In un mio recente intervento, apparso prima in rete su alcuni blog e poi uscito sulla rivista “Fermenti” [2] prendo posizione riguardo alla proposta di legge, redatta dalla Lega, di imporre il dialetto come lingua di studio nelle scuole dell’obbligo e, in linea con quanto dichiarato da Andrea Zanzotto, nel suo consueto limpido vaticinare: “il dialetto è una lingua che si apprende in famiglia, nei luoghi di lavoro…” in un passaggio dello stesso, affermo: “se il dialetto continua ad essere così ampiamente parlato nelle terre che furono della Serenissima, da dove l’esigenza di imporlo come lingua di studio? E poi, è davvero questo l’unico modo per tutelarlo?”, perché è vero che, a parte le regioni in cui l’idioma parlato è lingua (Friuli, Sardegna) è nel Veneto che percentualmente per numero di abitanti il dialetto resiste con maggior possanza nel parlato, ed è nel Veneto che assisto ad un battage mediatico senza precedenti, fra nostalgia e folklore, tutto teso a creare un movimento favorevole atto ad accogliere la proposta di legge succitata. Proposta che, a mio avviso, vive più di una mozione “politica” che di un vero interesse per la tutela dell’idioma in questione. E che muove da un assunto che è già assurdo nelle sue intenzioni: perché anche il dialetto, come ogni lingua viva, soggiace alle leggi della natura e del tempo, muta, si ibrida e si colora di un meticciato che, molto spesso, mentre lo inquina, ne è la ragione fondamentale del suo possibile perpetuarsi (ora, nei luoghi di lavoro, i nuovi parlanti dialettali – mentre la lingua va perdendosi, scolorandosi nelle generazioni più giovani – sono proprio gli immigrati: le badanti che assistono i nostri anziani, i nostri custodi orali dell’idioma; gli operai dentro i capannoni, i muratori…). Tentare di imbrigliarlo, di saldargli intorno una gabbia contenitiva equivale un po’ all’illusoria intenzione da motto popolare de fermar el treno col cul. Altro aspetto, più inquietante, è forse insito nel desiderio, o nella volontà, di chiudersi, anche linguisticamente, in una enclave, in un fortilizio, di alzare un ponte levatoio fra noi e i foresti, fra noi e la storia, con la parola d’ordine dialettale necessaria per farlo abbassare, quel ponte, per poter passare, entrare alla sagra, conquistarsi il piatto di plastica con la salsiccia, le costicine, la polenta. Perché ciò che appare in pericolo, ciò che sembra in via di estinzione, più che altro, è la natura umana del parlante dialettale, il suo saper preservare le proprie risorse naturali, la salvaguardia del territorio, dell’ambiente, intanto – paradigmatico, e anche qui lo cito solo come uno dei mille esempi che potrei usare, e perché lo conosco bene, il caso di Cessalto, uno dei paesi in cui il dialetto che uso è parlato, dove le istituzioni hanno cercato in tutti i modi, fra carte false e arroganza, di far passare una bretella devastante a due passi del bosco Olmè, già accerchiato, strangolato da una fitta zona industriale, per collegare distretti industriali con centri commerciali – si mossero, in primis, Mario Rigoni Stern, Andrea Zanzotto… e il sottoscritto (abitavo proprio alle porte del bosco, e dentro il bosco ho scritto molte delle mie poesie) insieme a un manipolo di abitanti indignati, a un comitato che ha dovuto lottare contro burocrati e mestieranti; in un articolo vergognoso apparso in uno dei giornali locali, quelle istituzioni decretarono, con la spocchia di chi è uso a ruspare ogni cosa si frapponga ai loro scopi: “la bretella si farà, con buona pace degli intellettuali” – al contempo, questo paese ora si fregia, con striscioni e insegne a caratteri cubitali, del titolo di comune italiano leader nella raccolta differenziata; un paese, quello in questione, che deve l’etimologia, la radice del suo nome: Caesus Saltus, proprio da quel bosco, sacra reliquia della grande foresta planiziale, e che, con la tipica faccia di bronzo dell’epoca, si dichiara, nei cartelli annuncianti l’entrata nei territori comunali: città del bosco. Sic… – e poi la capacità di accogliere l’altro come era nel d.n.a delle genti venete, padane, il suo esser parte del mondo e della storia (dall’emigrazione alle Americhe, al sergente Rigoni Stern, anche la stessa capacità imprenditoriale del nord-est… gli esempi positivi sarebbero molti, a ben guardarli); da un po’ di tempo noto invece la cultura distorta del sospetto, della diffidenza, dell’indifferenza e del rancore, e non sarà certo stringerci ai nostri lemmi odorosi di terra a salvarci in un mondo sempre più globalizzato, che mischia le sue genti per le leggi imposte dall’economia e dal mercato. È per tutte queste ragioni che chiudevo il mio intervento auspicando piuttosto, nelle scuole, in vece dell’insegnamento del dialetto, un corso di rammendo dell’anima.
Ecco, io sono qui, in Veneto, nel cuore della Padania, a scrivere, a recitare i miei versi con la lingua stretta fra questi due morsi; e così come non bado a chi vorrebbe decretare la vacuità e lo stare fuori tempo di questo mio canto espressivo, così cerco di frapporre distanza verso chi, in nome della lingua che per me è sacra, vorrebbe piegarla e usarla a scopi altri da quelli per cui ogni lingua, e ogni poesia nasce: la dialettica, cioè lo scambio di parole per stare insieme, per discutere anche, non certo per dividere. Io sono qui a rivendicare il diritto di potermi esprimere con la lingua che è quella della mia anima anche se lingua per pochi, moribonda, a difenderla da chi la sbandiera tanto, ora, e forse non si rende conto che sul pennone svolazza il brandello di un mondo cui hanno, da tempo, voltato le spalle.
Le pétoe, nel mio dialetto, sono sia i frutti sferici, spinosi e uncinati della lappola, o bardana, e sia, ma soprattutto nella mia memoria quelli neri, a punta di freccia della forbicina comune o bidens tripartita: si attaccavano tenaci al pelo delle bestie e ai vestiti, specie se di lana, al solo sfiorarne l’arbusto.
[1]Le pétoe, nel mio dialetto, sono sia i frutti sferici, spinosi e uncinati della lappola, o bardana, e sia, ma soprattutto nella mia memoria quelli neri, a punta di freccia della forbicina comune o bidens tripartita: si attaccavano tenaci al pelo delle bestie e ai vestiti, specie se di lana, al solo sfiorarne l’arbusto. [2] cfr. Fabio franzin, “Non si può imporre una lingua ormai lontana dall’anima”, Roma, Fermenti, XXXVIII n° 234, 2009, pp. 70-74.