Il fenomeno: date per spacciate, le parlate del popolo tornano a essere linfa vitale del patrimonio letterario
articolo su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 6.2.16
Dal Gargano a Bari, fino al Salento, così rinasce l’oralità, alimentata dagli scrittori. Ecco alcuni libri.
Mano a mano che si riduce il numero dei dialettofoni, cresce in misura inversamente proporzionale la consapevolezza che le parlate dialettali costituiscono un bene culturale immateriale da non svalutare né sottovalutare, ma da considerare come prezioso deposito di chances espressive oltre che di cospicue informazioni etnoantropologiche. Tale consapevolezza si va manifestando in diversi modi e con diverse proposte: C’è chi rimpiange di non aver appreso da piccolo la parlata dialettale che gli circolava intorno, chi organizza incontri e letture per meglio conoscere le qualità espressive proprie dell’oralità dialettale e chi si spinge fino a ipotizzare l’insegnamento del dialetto nella scuola di Stato, la stessa scuola che ha a lungo bandito una vera crociata verso i dialettofoni, costretti a un’acculturazione forzata che passava attraverso un’altrettanto forzata rimozione della cultura e della lingua di appartenenza.
Mentre era ancora in pieno esercizio questa forma di acculturazione, il poeta Ignazio Buttitta dichiarava in versi e in lingua siciliana che un popolo può essere privato di tutto, ma se gli si toglie la lingua è come sottrargli la linfa vitale. Comunque sia, alla luce dei dibattiti che periodicamente si sollevano in proposito, la cosiddetta “Questione della lingua”, che viene da lontano e che si studia nelle Facoltà di Lettere, meriterebbe di essere aggiornata per assumere angolazioni meno storicistiche e più dinamiche.
Come prima cosa sarebbe ora che la nozione di “madrelingua” fosse estesa anche a chi parla correntemente, oltre all’italiano, la lingua dialettale. In altre parole, dovremmo avere non solo soggetti di “madrelingua” inglese, tedesca, francese e così via, ma anche “madrelingua dialettale”. Di conseguenza andrebbe ritenuto bilingue non solo chi pratica l’italiano e una seconda lingua straniera, ma anche chi pratica, insieme alla lingua italiana, quella dialettale.
Per la medesima ragione, passando al versante letterario, non bisognerebbe più parlare (come fanno molti italianisti e critici letterari) di produzione poetica “in lingua” da una parte e “in dialetto” dall’altra, dove per “lingua”, ovviamente, si intende quella nazionale, il che porta a ritenere la dialettale una para-lingua o lingua minore o, peggio, “vernacolare”, aggettivo – quest’ultimo – che deriva dal latino verna cioè a dire servo domestico.
Sarebbe, invece, più corretto dire produzione “in lingua italiana” e, pariteticamente, “in lingua dialettale”, superando così la distinzione, teorizzata dal Pancrazi nel 1937, tra “poesia dialettale” e “poesia in dialetto”. E questo perché tutte le lingue che sanno parlare di vita morte amore lavoro sentimenti hanno pari dignità, soprattutto se hanno attraversato i millenni e soprattutto quando sono utilizzabili e utilizzate in forma di scrittura creativa.
È proprio nel campo della scrittura creativa, nella fattispecie poetica, che la lingua dialettale va da tempo recuperando spazio e celebra le sue rivincite. Il luogo della letteratura, infatti, per secoli dominato da accademie e crusche varie, da norme e da divieti, grazie ad alcune intuizioni pasoliniane e ai molti poeti neo-dialettali fioriti in tutta Italia negli ultimi decenni, è diventato la sede privilegiata dove il dialetto attesta i suoi requisiti di lingua tout court e, in particolare, di “lingua della poesia. Qui non è il caso di soffermarsi sulle differenze sostanziali esistenti tra produzioni caratterizzate da bozzettismo strapaesano o nostalgismo regressivo e operazioni più impegnative. Né è il caso di soffermarsi sulla cosiddetta neodialettalità affermatasi in Italia grazie a talune imprescindibili intuizioni di Pasolini.
Nell’ambito dell’oralità quotidiana, il nostro teorema viene dimostrato da Piero Manni, che per la sigla editoriale recante il suo nome ha curato un libro intitolato Mai ie iabbu: i vocaboli e le espressioni intraducibili del Salento, nel quale le varie voci da lui raccolte ed etimologicamente spiegate ( arteteca: irrequietezza; malesciana: malavoglia; poppitu: cafone) vengono chiosate anche da insigni scrittori, operatori culturali, uomini di cultura, da Cataldo Motta a Livio Romano, da Antonio Errico a Edoardo Winspeare. Risultato: l’intraducibilità del sottotitolo, grazie alle penne convocate, non necessariamente dialettofone, diventa sinonimo di specificità e di irrinunciabile ricchezza.
Sul versante della scrittura letteraria, registriamo il lavoro di Francesco Granatiero, di origine garganica che, mentre fa il medico a Torino, continua a pubblicare ottima poesia composta nella parlata di Mattinata (Foggia) e a occuparsi di questioni dialettologiche con studi, ricerche e un vocabolario dei dialetti garganici. Con La Vita Felice di Milano ha pubblicato un’originale, persino bizzarra, antologia di testi poetici composti in lingua dialettale lungo il Novecento nell’ambito di una macroregione glottologicamente omogenea che va dalla Campania meridionale alla Calabria settentrionale, includendo Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata e lambendo le Marche meridionali. Lo scopo del libro, intitolato Altro volgare: per una grafia unitaria della poesia nei dialetto alto-meridionali è quello di evitare il “faidate” cui si sono affidati e si affidano tanti poeti (non solo di quest’area), finendo così per produrre una giungla di criteri trascrittivi difformi uno dall’altro. Viene fornita quindi una sorta di ragionato vademecum, che offre oltre ai dialetti di quest’area la possibilità di disporre di un’ortografia comune, scientificamente fondata.
Persino ‘A vucchella del pescarese D’annunzio, musicata da Tosti e cantata anche da Caruso e Pavarotti, insieme ad altre composizioni dei pugliesi Abbrescia (Bari) e Gatti (Ceglie Messapica), della lucana Finiguerra (San Fele), dell’abruzzese Rosato (Lanciano) e di altri poeti vengono trattati graficamente al fine di conseguire un’unitaria regolamentazione delle norme trascrittive.
A dare manforte a queste operazioni, arriva una importante antologia curata da Ombretta Ciurnelli, intitolata Dialetto lingua della poesia nelle edizioni Cofine di Vincenzo Luciani, originario di Ischitella (Foggia), dove annualmnte organizza un premio nazionale per la poesia in lingua dialettale.
Al novero di queste “rivincite”, possiamo ascrivere la traduzione in dialetto calabrese della Commedia prodotta diversi decenni or sono da Gaetano Savelli e riproposta in reading da Vito Signorile per le celebrazioni dantesche ideate da Daniele Maria Pegorari. In fin dei conti, tali produzioni dimostrano come la lingua dell’oralità, cacciata dalla porta, sappia rientrare dalla finestra, quasi fosse dotata di una specie d’astuzia biologica, grazie alla quale è toccato alla scrittura e agli scrittori, paradossalmente, soccorrerla e alimentarne l’istinto di sopravvivenza.
Lino Angiuli è nato (1946), vive e scrive in Terra di Bari, dove ha diretto un Centro regionale di Servizi educativi e culturali. Si occupa da decenni di poesia e di altre scritture. Ha fondato e diretto alcune riviste letterarie, tra cui «incroci», attualmente attiva.