Condividiamo con piacere l’intervento per l’evento del 29 giugno 2016 scritto da Nelvia Di Monte – membro del Comitato Poetico Letterario del CRS Durini – Centro di Ricerca e Studi per le lingue dialettali e minoritarie europee promosso da La casa della Poesia di Monza, e la ringraziamo per il contributo.
Nelvia Di Monte: Poesia dei dialetti tra identità e diversità culturali
Vorrei portare alcune riflessioni considerando, più che la mia esperienza, le mie aspettative: mi piacerebbe che il progetto accettasse una sfida all’esistente, cercando di intrecciare tradizione e novità, memoria e futuro.
Forse perché io (come tanti poeti) vivo e scrivo lontana dal luogo d’origine di cui uso la lingua, se mi soffermo a riflettere sulle parole radici e identità, anziché sicurezza, provo un senso di spaesamento e inquietudine. Ma è da qui che voglio iniziare.
Da quando, secondo il racconto biblico, siamo stati scacciati dall’Eden o, secondo gli antropologi, siamo scesi dalle piante nella savana africana, essere nomadi è il nostro destino. Quindi, riferendoci alle radici, non di territori delimitati stiamo parlando, ma di luoghi resi simbolici, con il loro genius loci e le lingue ad essi legate, che ci appartengono nel profondo e abbiamo portato via quando siamo partiti, per scelta o perché costretti. Elementi radicati dentro di noi e che continuano ad agire e a parlarci in una diversa realtà, geografica o, almeno, temporale. Purtroppo non possiamo far finta che tuttora, nei nostri tempi incerti, i termini radici e identità possano essere interpretati con una visione miope, di localistica chiusura e difesa di particolarismi territoriali.
Ammetto che sia difficile rinunciare al termine ‘radici’, perfetto in relazione ad un Parco letterario: un luogo che fonde natura e cultura, che richiede cura costante, che accoglie e comprende tante diversità. Uno spazio di incontro, svago e riposo: considerarlo di otium sarebbe l’ideale! Quindi? Al punto “C” degli obiettivi del progetto si mantenga il termine, ma si metta al plurale anche la parola identità: “delle identità culturali”. Così da avvalorare la finalità della Casa della Poesia di Monza, di fare della poesia “uno strumento di pace, dialogo di comprensione e valorizzazione di quelle diversità culturali ed espressive, anche linguistiche, che compongono ed arricchiscono la società umana”.
La mia precisazione ha un’origine personale, che tuttavia mi sembra possa essere riferita a molti, fino a porsi, penso, come esperienza assai comune: fin dall’infanzia si è spesso immersi in un incrocio di diverse voci e differenti lingue. Ieri e, ancora di più, oggi. E le statistiche dicono che se i dialetti scompaiono in alcune realtà geografiche, in altre sono vivi e vegeti, ampiamente utilizzati nel linguaggio quotidiano, nelle canzoni, cinema o teatro. Quanto a me, il paese lillipuziano dove sono nata era abitato da autoctoni furlans, come mio padre, e da talianòts, termine dispregiativo per indicare gli immigrati veneti giunti lì dopo la prima guerra mondiale, come la famiglia di mia madre. Al di là delle diatribe linguistiche, i due gruppi poi si incrociavano e procreavano: in ogni caso, io da subito mi son trovata ad ascoltare due dialetti, anche se sarà il friulano del padre a diventare in me lingua della poesia, oltre all’italiano. Ogni così detta identità, anche linguistica, non è mai frutto di un monolitico narcisismo, di una autoreferenziale definizione: si costruisce rapportandosi ad altre identità. Richiede compresenza, relazioni, confronti.
Perciò aggiungo un’altra richiesta: che, nel promuovere le proprie iniziative future, non si ricorra, per definire il dialetto, al logorato aggettivo di lingua materna. È una metafora per indicare la lingua originaria, ascoltata e interiorizzata per prima, ma rischia anche lei di essere limitante, un termine riduttivo (se non regressivo verso una infanzia mitizzata): non solo perché spesso non corrisponde all’oggettività di una scelta linguistica (diversi poeti e poete usano la lingua paterna) e perché, in fin dei conti, ogni lingua poetica è di fatto composita, in parte ereditata in un intreccio di suoni esperienza memoria, in parte riscoperta, in parte ricreata di nuovo. Ma, soprattutto (e in relazione al progetto), perché ritengo che non corrisponda più alla realtà odierna, alle problematiche del nuovo millennio, a quanto i giovani ci pongono davanti. Se gli anni ’70 hanno visto lo sviluppo della poesia neodialettale, se negli anni ’80 – modificato il clima sociale e culturale – si è verificata una più ampia partecipazione delle donne anche in questo ambito, si deve ora riflettere sul fatto che non bisogna sostare sul passato oltre il necessario, col rischio di adagiarsi sui bei tempi andati, o di restare irretiti da immagini che più non esprimono la vita che scorre. Dobbiamo creare altre immagini-guida, cercare altri aggettivi che meglio esprimano molteplicità intersezioni aperture. Come?
Ampliando ulteriormente il nostro dialogo per creare davvero quel “ponte di comunicazione con i giovani” che è tra le finalità del progetto: purtroppo mancano, in questa tavola rotonda, i rappresentanti di una nuova generazione, che portino qui le loro esperienze, le loro idee, la loro sfida al futuro.
A conclusione, vi leggo quanto ha scritto Dina Basso, classe 1988 e che già nel 2010 aveva pubblicato la sua prima raccolta nel dialetto di Scordìa (CT): “Non è però un dialetto puro, non è il dialetto che parlavano i miei bisnonni, di certo: è quello parlato da noi giovani, in famiglia, al mercato, che si impasta all’italiano, che storpia le parole. […] Utilizzo talvolta anche termini molto antichi, ma purché siano ancora in uso nel parlato. […] Il mio modo di scrivere è illuminato dalla mia nonna materna, che parla un dialetto “elastico”, che accoglie parole italiane mantenendo comunque un impianto tradizionale. […] Non mi spaventa poi neanche l’uso di parole straniere […]: facendo parte del nostro lessico quotidiano, penso che abbiano diritto di cittadinanza anche nella poesia dialettale” (in Dialetto lingua della poesia, antologia a cura di Ombretta Ciurnelli, Edizioni Cofine, Roma 2015, pag 262).
Con invidiabile disinvoltura Dina Basso fonde elementi apparentemente eterogenei, basati su una tradizione familiare e sociale legata al dialetto della nonna e alla vita della città; una lingua corale, ‘impura’ ed ‘elastica’, autenticamente popolare, locale ma non localistica, perché consapevole che il passato rimane vivo se vi si innesta nuova linfa, e che le persone si muovono e comunicano a livello globale, le lingue si intersecano, i dialetti si modificano.
Conservare la tradizione dentro la complessità e le contraddizioni del presente – in un contesto che, come bene indicato da Dina Basso, è di relazione e multiculturale – mi sembra l’atteggiamento giusto per affrontare il progetto della Casa della Poesia qui presentato, che ha nel dialogo tra le diversità culturali il suo punto di forza.