Vincitori della XI edizione del Premio di Poesia Isabella Morra
La Casa della Poesia di Monza ringrazia tutti i poeti che hanno partecipato a questa edizione, gli studenti e i detenuti dei vari Istituti di pena italiani, il Presidente del Premio Iride Enza Funari, la Fondatrice del Premio Antonetta Carrabs, il Presidente onorario Guido Oldani, candidato al Nobel per la Letteratura e a tutta la pregevole giuria di qualità:
Donatella Bisutti Giornalista – Scrittrice e Critica Letteraria
Massimo Morasso Poeta e Critico Letterario
Andrea Galgano Poeta e Critico Letterario
Elisabetta Motta Critica Letteraria – Saggista
Gianna Parri Presidente del Premio Letterario Brianza
Antonetta Carrabs Poeta – Scrittrice – Giornalista Pres. de La Casa della Poesia di Monza
Pubblichiamo le poesie vincitrici e le motivazioni.
SEZIONE DETENUTI
1° classificato
N. N. Casa circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia
Entropia
Seduto o disteso sul bordo estremo
di questo finito, infinito universo,
– fosse giorno o notte dir non saprei –
mancava un sole per percepirlo.
Guardavo con ansia la piccola sfera
di blu cobalto nel nero che inghiotte.
Vane speranze e dolci pensieri,
inutili promesse nei troppi sospiri
si affollano chiassosi sulla sua superficie.
Atomi di pensiero si scontrano senza sosta
con dei capricciosi, dai mutevoli nomi,
e un Dio vendicativo, misericordioso
forse, che senza permesso
“ imbrogliò il primo uomo ”.
Dal lato opposto, dal caos costante,
volgo lo sguardo – novello Odisseo –
sul tempo che non scorre, sullo spazio
annullato, inesistente materia
la stella più bella.
E chiedo a gran voce il senso del tutto.
Ma oltre quel limite non c’è religione
né scienza o magia ma solo l’assenza,
ordinata entropia.
Tra virgolette una citazione da
“ Un blasfemo” di Fabrizio De André
ipirata a sua volta da Edgard Lee Masters
2° Classificato
R. N. V. Casa Circondariale di Potenza
Oltre ogni muro
“Abbandonato”
come uno scarto,
c’è il respiro in me.
Fievole e leggero, ma c’è.
Cammino su e giù, lungo corridoi freddi
di un carcere dipinto da ombre.
Non sento più il dolore delle mura,
non sento più i brividi di sudore freddo.
Quando non te l’aspetti,
e credi che sia la fine,
ecco un orizzonte spingersi oltre ogni muro.
Che storia!
Guardando quel pezzo di cielo grigio
con sfumature nere e celesti
incorniciato da quella povera finestra
di cui dispone la mia cella,
ascolto l’eco della libertà,
sono raggi di un sole ribelle
che trasgrediscono i confini dell’oscurità,
penso di non essere più destinato
a essere testimone di ciò che ho alle spalle,
ma esistenza di ciò
che vorrò diventare.
3° Classificato L.C. Casa circondariale Sanquirico di Monza
Bianco è il sudario che avvolge il corpo
nero è il velo che, per sempre, oscura il mio sguardo
rubea è l’ardente fiamma che brucia il mio cuore
cremisi è la volta che conchiude il mio essere
giallo è il raggio che talora riscalda il cereo incarnato
viola è il pensiero della melanconia abbandonica
verde è il fogliame sotto il quale vorrei venir sepolto
marrone è la terra nella quale dissolvermi, divenir nutrimento
nebbia, color vagante, nel quale disperdermi senza far più ritorno
ma sopra tutto è il colore del dolore
che vi lascio come messaggio.
L.C.
SEZIONE STUDENTI
1° Classificato – Christian Negri
I testi fanno parte di una silloge, il che li valorizza come elementi di una struttura più ampia e articolata e colpiscono per la maturità delle scelte formali e ritmiche. Negri con i suoi versi lamenta un Orizzonte stretto dell’umano, in cui i rapporti sono falsati dall’ipocrisia e dagli interessi personali, in cui non si comprende la forza della parola poetica, segno esatto che va oltre la sua significazione. Emerge la capacità di leggere gli eventi, anche quelli più tragici, riconducendoli entro una visione che lascia ampio spazio al mistero dell’esistere. (Elisabetta Motta)
Dalla silloge L’orizzonte stretto ed altri versi presenti ed eterni
Non denaro illimitato né una immensa
messe infestava i suoi sogni:
ma la tumida Terra, la lacerante Luce
da sud-est, l’Acqua rarefatta e fatta però
Rugiada Diluvio Tormenta, un podere
solido, e benedetto, e venerando.
Solo possedere il miracolo,
tra mistero e empirismo, nodo
ultimo da non sciogliere, se
non quando
ignorare i fumi delle are di scienza
più non sarebbe stato possibile.
Ma la campana suona nell’aria buona,
una voce lamenta impreca, e non si congeda,
e la città…, la città ingloba; sostentasi di bestie
da soma e pare che pretenda di protendersi
sempre più su. Giù scivolano le faine
e ignorano che ogni zappa sottratta ogni vetro rotto
sia una stilettata a quel cuore, che volle
e strinse, per poco, schiantato lì
tra quel poco di misterioso.
**
Dicono che lo sguardo sia avamposto del primo
amore. Trascurano sempre la parola, il suo librarsi oltre
il velo delle lettere messe nero su bianco, il suo liberarsi
del drappo del significato. La parola propugna il potere
nascosto dell’analogia, dell’impressione lampante
sono le ore trascorse a trasceglierne una sola a rivelarcelo.
**
Ad oggi, non scorgi che sguardi catafratti,
trincerati in trincee bianchissime,
la linea del fuoco che emerge. La città che piange:
l’amico si finge nemico, anzi, è l’incubo peggiore:
l’amico è un sicofante, un delatore.
Poggia le sue piante dove già poggiasti le tue
e non te ne accorgi: scrutare le orme
significa affrontare gli inciampi,
prender coscienza delle sviste riguardo alla direzione.
Se le ombre potessero esprimersi
ti chiamerebbero falso Deucalione, patriarca del nulla:
fissando l’orizzonte, scordi il tuo seme, porgi nuda la schiena.
2° Classificato – Matteo Angelo Lauria
La poesia contiene elementi che consentono di inserirla nell’alveo della tradizione dannunziana. L’immagine iniziale della luna, solitaria e coi suoi freddi bagliori, permette di intravedere nella labile penombra «figure opache dai volti amati / figlie del crepuscolo e della notte» riconducibili entro una visione panica della natura. Attraverso un ricco gioco di immagini, allitterazioni e onomatopee, vengono ricreate atmosfere autunnali poste in contrasto con il ricordo, ormai lontano, dei caldi pomeriggi agostani. Nel finale si coglie una sospensione mitico-religiosa. Vegliato dalla pioggia, il poeta si abbandona «all’abbraccio distaccato della notte» e «nell’atto di carpire i segreti e le verità / dell’umana conoscenza», sgretola «in brandelli di luce / l’essenza della vita». (Elisabetta Motta)
Eco d’autunno
Luna
solitaria nel tuo universo,
riverberi i freddi bagliori
sul lago trasparente dell’esistere.
Nella tua labile penombra
intravedo figure opache dai volti amati,
figlie del crepuscolo e della notte.
Perseguitato dal lento incedere
delle tenebre autunnali,
mi aggrappo ai ricordi
di un’epoca lontana,
vinto dal gelido afflato
dell’inverno fanciullo.
Quiete erano le sere di fine ottobre
tra scricchiolii di rami secchi,
scintille di fuoco nel camino
e turbinii improvvisi di foglie variopinte.
Il sommesso crepitio di castagne
nella cenere ardente
si fondeva all’umida bruma mattutina,
che eterea si dissolveva
al nascere dell’aurora,
mentre in lontananza echeggiava
il lamento soffocato dei campi,
orfani del frinio delle cicale
nei caldi meriggi d’agosto.
Vegliato dallo scrosciare assordante
della pioggia,
mi abbandono all’abbraccio distaccato
della notte.
Nell’atto di carpire i segreti e le verità
dell’umana conoscenza,
sfumo ogni cosa
nella foschia dell’incertezza e,
indifferente
a questo tempo vile e beffardo,
sgretolo in brandelli di luce
l’essenza della vita.
3° Classificato ex equo – Alice Pozzi
Le poesie affrontano il tema della perdita e nascono dal bisogno di esternare la propria sofferenza ma soprattutto l’amore per una figura cara che si delinea attraverso la descrizione di gesti di cura e consuetudini di un quotidiano che ha lasciato il posto ad un vuoto incolmabile, ma anche a ricordi indelebili, da cui trarre ancora sostegno e la forza per affrontare la vita. (Elisabetta Motta)
Prenditi cura di me
Prenditi cura di me
come un fiore appena colto
come i sogni dei bambini
come quel regalo di papà.
Stringimi forte come un pugno
forte come il nostro amore
intenso come un battito
gentile come una carezza.
Il mio cuore appartiene a te,
che ti prendi cura di me.
In ogni momento triste, difficile e nero,
tendimi la mano
perché insieme lo supereremo.
3° Classificato ex equo – Laura Riva
Una visione eroica e al contempo tragica della vita emerge dai testi di Laura Riva. In Ricordo di un addio l’autrice delinea con pochi tratti («dita affusolate», «labbra bianche») e affidandosi alla forza onomatopeica di quel «tintinnio» di medaglie sul suo petto, una presenza cara che non c’è più, verso la quale si coglie un senso di crescente ammirazione e di nostalgia. Il senso di vuoto crea una consapevolezza che non si scioglie nel punto interrogativo dell’unico dubbio: «Mi chiedo/ che fine abbia fatto /la magia?». (Laura Riva)
Ricordo di un addio
ricordo il sole
in quella stanza
e le poesie in un libro
aperto
sulle sue ginocchia
e le dita affusolate
sul mio mento
e le labbra bianche
sulla mia fronte
e il tintinnio
delle medaglie
sul suo petto
che ora più che mai
hanno valore.
Barriere
tieniti stretta la tua etichetta
qui li mangiano i diversi
qui l’esigono l’uniforme
intanto bruciamo i cartelli
e il cielo e la terra
e noi ci amiamo
irrefrenabile istinto di vita
e ci chiamiamo
ribelli.
MENZIONE – Anna Milesi
Con questi versi Anna Milesi ci prende per mano e ci conduce entro uno spaccato di vita quotidiana. Il viaggio in auto, in compagnia del padre, sulle note di Vita spericolata, si fa metafora di un viaggio esistenziale scandito da gesti, parole e silenzi, nei quali l’autrice riesce a leggere i segni esatti dell’amore. Si coglie la capacità di stupirsi per la presenza dell’altro, visto come dono e mistero. (Elisabetta Motta)
Vita spericolata
La tua voce è una canzone
incisa su un vinile
parli per poco tempo
a volte ti ripeti
solo per chi ascolta davvero.
Sei un mistero, una sorpresa
racconti in gesti il tuo passato
avventure lontane
solo per chi ascolta davvero.
Mostri l’amore di nascosto
ma è lì
nel silenzio del mattino
quando mi porti a scuola
nelle tue vecchie canzoni
dal rock al pop
solo a chi vuoi bene davvero.
Resti con me
senza parole
mi prendi la mano
mi insegni a guidare.
1° Classificato – Ivan Fedeli
Si tratta di una poesia di carattere narrativo-esistenziale che si inserisce in quel filone della poesia italiana, solo in apparenza secondario, che muove dai crepuscolari, in primis un Gozzano di cui spesso si dimentica che non è solo poeta della malinconia ma anche o forse soprattutto poeta dalla venatura ironica e dissacrante, passando per la poesia “narrativa” del Cesare Pavese dei Mari del sud, ma anche del “romanzo in versi” de La Camera da letto bertolucciana, ma soprattutto “la poesia della realtà” antologizzata da Majorino ancora nel 77 e venuta a coincidere in gran parte con la cosiddetta “linea lombarda”, da Elio Pagliarani con le periferie milanesi de La ragazza Carla, passando per il Raboni de Le case della Vetra fino a Giampiero Neri con la sua La via provinciale e oltre. A questi illustri predecessori Ivan Fedeli aggiunge la sua voce rielaborando la tematica delle periferie – qui della provincia – tra fabbriche, bar, sigarette, banchi di mercato e avventure amorose magari solo vagheggiate, partito comunista e chiesa cattolica, riportandoci indietro di alcuni decenni, forse con una certa inespressa nostalgia adesso che viviamo in un mondo sempre più informatizzato. Ma non è certo la malinconia la nota qui predominante. Fedeli ci offre una piccola galleria di donne inserite nel meccanismo anonimo del quotidiano ma anche libere a loro modo, sottilmente trasgressive, indomite, in contatto con una radice ancora selvatica e autentica della vita, che appaiono e improvvisamente spariscono, mentre il poeta recupera dalla tradizione la sapienza del ritmo con l’endecasillabo, pur tuttavia assecondato da una sintassi scandita e asciutta, a volte quasi sincopata. Queste poesie di Ivan Fedeli si accordano bene ai versi di Cesare Pavese citati in exergo e sembrano riprenderne l’andamento che nel finale sfuma, dal racconto animato dai personaggi descritti con una lieve empatica ironia, al paesaggio circostante, per dissolversi poi in lontananza, in un silenzio che in una poesia orfica sarebbe sentimento panico e diventa qui invece un’evocazione del nulla, poetica del puro esistere. (Donatella Bisutti)
Dispersi nomi
(cose di provincia)
1.
(L’Adele)
Vestiva da comunista l’Adele
tra un turno di notte e la foto di Occhetto
sull’Unità del sabato. Era donna
di partito e di idee ma si dava
all’amore talvolta con l’occhio un po’
a Marx e ai giovani belli di un tempo.
Così viveva pensando a uno sconto
sugli anni che vanno mentre fumava
in silenzio Marlboro quasi il gesto
abbracciasse in sé il senso dei giorni.
Sapevano di lei allora di quanto
la vita accompagni chi resta e fugga
veloce a nostra insaputa anche qui
dove le case basse aprono al sole.
È andata via di colpo e in giro cercano
in molti lo sguardo o un colpo di voce
che le appartenga. Ma accade lo stesso
a chi chiama per nome e nessuno
risponde quando chiudono i bar e fanno
a parole veloci amici di ogni
età sognando favori di donne
o viali di città ai confini. E nascono
favole buone per la notte e niente
più di questo. Poi si esiste soltanto.
2.
(La Mariuccia della frutta)
La si vedeva un po’ come una zia
di qualche terra di là e la Mariuccia
rideva tra le albicocche da vendere
e l’occhio ai giovani belli di qui.
Così pensava all’Isacco e all’amore
se dura per sempre mentre pesava
la frutta e il cuore a capire la tara
o nel senso la vita. Apparteneva
allora quasi fosse di casa e
le si dava del tu forse arrossendo
quando chiudeva la cassa e se stessa
in attesa di un mondo adatto. Chi
la ricorda non sa del suo sguardo alto
sui monti e del silenzio delle rughe
da tenere a bada dopo un sorriso
sfuggito. E la si crede un’idea oggi
di quelle che fanno liberi e viene
una leggerezza dentro che vince
il silenzio dove nessuno più
ti dice di lei o del profumo attento
di rosmarino e arance tutto addosso
alle cose da tenerlo a memoria
prima del vento in aprile che spazza
via nuvole e cielo in provincia poi noi.
3.
(La Marcella)
Passava in bicicletta la Marcella
pensando al mondo e alla messa del sabato
quando si passeggia a caso e nessuno
manca. Tu ne vedevi a maggio gli occhi
allargarsi un po’ con il sole quasi
aspettassero un saluto al sorriso
poi si aggiustava i capelli per stare
in ordine lei e la vita. Era bella
di suo nemmeno i giorni la sfiorassero
senza toccarla mentre dava baci
ai bambini chiamandoli per nome
come una zia di casa. Recitava
il rosario a volte e le poesie
di Neruda andando a memoria
così si sentiva viva. Negarla
al tempo oggi lasciandola protetta
tra noi fino a immaginarla per sempre
intatta e qua e là le borse della spesa
gialle poi il silenzio intorno e una corsa
nell’allegria dei prati da starci
sopra comodi a contare le nuvole.
2° Classificato – Fabio Franzin
FABIO FRANZIN «Pastoso e terragno, dalle ampie legature vocali», secondo quanto ne dice l’autore, in queste liriche di Fabio Franzin il dialetto veneto-trevigiano della sinistra del Piave dà prova mirabile della sua scorrevolezza versificatoria. Si è detto non a caso “liriche” e non “poesie”, poiché a Franzin bastano tre soli testi, che fanno in tutto cinquanta versi, per darci contezza della forza veritativa e della qualità “verticale” della sua duttile linguaaltra, così evidentemente precisa e ricca di forza evocativa. Lungi dal rinchiuderci in quadretti di genere di sapore locale, Franzin ci induce con sapienza musaica a volare con l’immaginazione in compagnia di “ali ferme”, “piccoli becchi” e “cicogne pascolanti” oltre l’orizzontalità di un mondo, il nostro, che non sa / più volare, né portare novità / altra che male e disgrazie. (Massimo Morasso)
Conforti naturài – Conforti naturali
(Nel dialetto Veneto-Trevigiano della sinistra Piave)
Àe ferme che freme
El nient, che a volte
l’é squasi tut, e spess
un pensièr che se perde
tel vent, co’i osèi che
va, là in alt, sbièghi
fin a sparìr. El nient
che l’é quel che sen
qua da bass, co’i basi
e ‘e àgreme, i grumi
de ròba robàdha al tenpo,
tignùdha strenta al pèto,
un istante, ‘e àe ferme
che freme drio ‘e spàe.
Ali ferme che fremono
Il niente, che a volte / è quasi tutto, e spesso / un pensiero che si perde / nel vento, con gli uccelli che / vanno, là in alto, obliqui // sino a sparire. Il niente / che è ciò che siamo / qui in terra, coi baci / e le lacrime, i grumi // di cose rubate al tempo, / tenute strette al petto, / un istante, le ali ferme / che fremono dietro le spalle.
Fòjie drio el vero
Un tremoeàr lento che par
e no’ par, come paròe verde
a far amór co’ l’aria, col jazh.
Frasche, carezhe de piume,
pìcoi bèchi a sbusàr ‘a lastra
del domàn. Punture, busìe,
chi ‘o che sa còss’ che sie
‘a verità, te ‘sta tèra straca,
senza pì echi né canti.
Trema ‘e fòjie ‘e nostre
paure, te un’aqua dura
che vardén, pensando.
Foglie oltre il vetro
Un tremolio lento che pare / e non pare, come parole verdi / a far l’amore con l’aria, col ghiaccio. // Fronde, carezze di piume, / piccoli becchi a forare la lastra / del domani. Punture, bugie, // chi sa cosa sia / la verità in questa terra stanca, / senza più echi né canti. // Tremolano le foglie le nostre / paure, in un’acqua dura / che fissiamo, pensando.
3° Classificato – Davide Ferrari
Il testo di Davide Ferrari è una mendicanza di altezze, che richiama ciò che scrisse San Gregorio Nazianzeno «se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita» e, in quel «verbo che in penombra dalla bocca / si staccava la chiamavo vita», si respira tutta l’ampiezza di un desiderio, di una promessa e di una tensione. Davide Ferrari non grida ma invoca, è già in quel Nome, fissato dal Nome, chiamato con il Suo Nome. Nella realtà tutta pronunciata, principiata e proclamata, vi è un desiderio di eterno che ha Volto e viene riconosciuto. La poesia, dunque, insegue ciò che non ha possibilità di corrompersi e finisce per vibrare di una urgenza umana limpidissima. (Andrea Galgano)
Gesù
«Quello che a voi è nascosto io ve lo comunicherò.»
Maria Maddalena, dal Vangelo di Maria, II sec.
Io rinuncio a te, e a te tendo sempre.
Quando l’indice segnava la parolaera la carne che chiamava carne,
la tua voce labbra e farne parte l’unico pensiero, la traiettoria delle dita.
E il verbo che in penombra dalla bocca
si staccava la chiamavo vita,e si vedeva proprio lì la vita
come un petalo si stacca e nella quiete appassisce nella sabbia.
Pulsavano le vene dei miei polsi, come a direnon lo voglio
questo passo nella terra, non sono
l’uomo che cercate, il figlio che rinuncia alla salvezza della notte.
Ti amo dicevi, ti amo, e non finivi di scrivere la frase, sulla curva del tuo collo
era tramonto quel colore giallo come il sole adagio che si spegne.
E proprio il tuo respiro porto intriso nel sudario,
non quello della madre,della voce che si spezza,
il tuo respiro, che tramontaqui, nel fiancoe si fa seme, e resta,
come il grano a partorirsi in una spiga. E poi tu, che altro non chiedevi
se non l’ultima riga, una soltanto, l’anelito del cuore prolungato
all’indice come una prima volta.Imparavi a scrivere il mio nome,
e io rubavo fiato dalla boccadi nascosto come uno dei ladroni,
come un qualunque uomo appeso a una promessa, e io volevo le tue mani
come tu nell’ultimo pensiero avvicinavi
a me le tue, per essere noi due, e poi più niente.
Ti perdevi a dare forma alle curve dei miei polsi, io misuravo la distanza,
barcollavo di nascosto dai tuoi occhi, vedevo la condanna
e dentro il petto la caduta, sentivo già le cicatrici
nel respiro, e fino al cuore, presagivo l’ultimo supplizio,
la luce che alle spalle ricreava lo scenario -uscire allo scoperto- devo farlo
mi dicevo, -non per un amore strofinato sulla bocca di uno sconosciuto,
per un ordine, la fede, o qualcosa che trattiene,
e tu la forza, la fissità del sasso, il silenzio
freddo si appoggiava assorbito dall’addome, mi facevo fiore che appassiva,
la parola monca;un punto
e virgola, l’esitazione e la cadutafino a perdersi in discesa nello spasmo.
La tua materia io cecavo per riempire la condanna
con un corpo conosciuto, inesplorato, in fondo,
e intendo mentre a fondo trascinavo me dentro le voci della piazza
la madre mai riposta la risposta ai piedi della croce,
guardarla da lontano, una figura in mezzo alla composizione
orfana di un pezzo, senza più il colore innaturale della carne uscita allo scoperto.
Io tendo alla tua carne, e intendo sempre,
e la risposta è questo amore imparatoa vicinanza, questa svista,
il figlio, l’uomo e le fessure dei suoi occhi in direzione della terra
come a disegnare l’ultimo ricordo, per la paura di te.
Ma proprio te io chiamerò per nome perché è nel nome
la tragedia, negli spigoli dei gomiti, l’inerzia delle mani
ipnotizzate dalla fiamma, la curva degli zigomi,
la terra tra i capelli e le tue lacrime rapprese come un dono.
Io rinuncio, perché io sono pronto, tuo è quel che resta del corpo,
una forma impressa all’occhio, e poi subito un sussulto, penso, di noi due,
e poi la carne che si disfa. E poipiù niente mi hai insegnato, o solo il nome,
e questo basta. E questo amo.
Davide Ferrari legge la sua poesia
Luigi Somma e Ivan fedeli
Anna Milesi
Davide Ferrari e Antonetta Carrabs
elisabetta Motta e Cristian Negri
Matteo Angelo Lauria
Iride Enza Funari Presidente Premio I. Morra
Ivan Fedeli e il sindaco di Monza Dario Allevi
Finalisti