Mirabello Cultura: Pomeriggi Culturali nel Parco
Incontro con gli autori
Laura Pariani | Narrativa
Presentazione del romanzo di Laura Pariani
Questo viaggio chiamavamo amore
Venerdì 8 aprile 2016 – ore 18.00
Teatrino di Corte della Villa Reale di Monza
Interviene Gianni Turchetta – critico letterario
Letture a cura di Laura Piazza – attrice
Coordina Simona De Simone
Introduce Antonetta Carrabs
Ingresso libero
E dal fondo il vento del mar senza posa
di Simona De Simone
Laura Pariani Questo viaggio chiamavamo amore, pp. 194, €19, Einaudi, Torino, 2015.
E’ancora “ai margini della storia ufficiale” che sceglie di muoversi la scrittura di Laura Pariani.
Questa volta, però, non si tratta di “brandelli di storie dimenticate e vaghe”, ma della vicenda biografica di Dino Campana, il Rimbaud della Romagna, che nel corso del ‘900 ha attirato l’attenzione di tanti -si pensi alla Vita non romanzata dello psichiatra Carlo Pariani, al romanzo-verità La notte della cometa dello scrittore Sebastiano Vassalli, al film “Un viaggio chiamato amore” di Michele Placido o alle Variazioni per voce di Carmelo Bene-, senza che il suo caso letterario possa dirsi totalmente risolto. Un ribelle, il Campèna, che amava definirsi “povero, ignudo, felice di essere povero e ignudo” (La Notte, I, 14), epperciò considerato dai familiari, compaesani e intellettuali del suo tempo uno svitato capace solo di strologare fantasticaggini, uno strano, un degenerato, un matto, uno di cui bisognava ricostruire la storia clinica, dragare il fondo del tenebrone psichico e forgiare una lapidaria sentenza, orientandosi tra i geroglifici della psicanalisi. “Nevrastenia? Isteria? Paranoia? Psicopatia dissociativa?” Quale l’etichetta più adatta a racchiudere un Io frantumato e caotico, un Io che rifiuta -per dirla con Michelstaedter e Bataille- la “rettorica” borghese in nome della “dissipazione” della vita, dell’amore, della poesia anche se “non si lasciano mangiare come una salsiccia”, un Io che ha “il senso del raro e dell’effimero”, che non non smette di “cadere in adorante contemplazione di cose a cui gli altri neanche badano”?
E’ a questo Campèna che la Pariani dà voce, al forestiere della vita che di lontano, ossia dal miserevole covo del Regio Manicomio di Castel Pulci, cerca una risposta alle domande più ancestrali e profonde (“Ci sono altri mondi sotto i nostri piedi? Se esistono cose che non vedo, è altrettanto vero che le cose che vedo esistono? Siamo sicuri che questo giorno pieno di luce non debba essere chiamato oscurità?”) e, al pari di tanti giovani del suo tempo, insegue una possibile conciliazione tra Arte e Vita, un’alternativa alla Follia e alla Morte, che non annichilisca il dovere di creare una poesia dalla vita.
E, per bocca di un ironico Campèna, la Pariani scuote il suo lettore, lo provoca, lo spinge a straniarsi, a rovesciare il suo punto di vista, a ricordare ancora una volta -non ce n’è forse sempre bisogno?- che i “malati” sono sempre quelli che si pensano “sani”, ossia i computisti della vita, quelli che sprecano ore e ore in scartoffie, timbrature, relazioni, verifiche e dimenticano le poche cose veramente importanti. E, come il Belluca del Treno ha fischiato di Pirandello, anche il Campèna della Pariani dall’inferno del suo manicomio, quando dietro i vetri annotta, si regala le sue fughe notturne, i suoi risarcimenti onirici e le sue alchemiche epifanie, tutte incarnate dai paesaggi e dalle donne sudamericane, conosciute all’epoca del presunto viaggio verso l’America. Contaminando le scarse notizie biografiche d’archivio, le rapinose impressioni del componimento Viaggio a Montevideo e i propri ricordi personali, la Pariani ricostruisce le tappe e le figure di quel viaggio del 1907, volutamente sospeso tra sogno e realtà -come avrebbe voluto lo stesso Campana- e lo rende prezioso contrappunto di un presente -quello del 1926- scandito unicamente dall’eterno ritorno dell’uguale.
Il discorso narrativo non si limita, però, a riprodurre quest’incessante andirivieni spazio-temporale, fornendone al lettore una preziosa segnaletica attraverso i titoli dei capitoli (peraltro spesso mutuati da testi dello stesso Campana), ma se ne lascia innervare nel tessuto linguistico. E, infatti, è proprio nella lingua, pronta a registrare puntualmente le voci sussurrate negli orecchi di Campana -e in quelli della stessa scrittrice- dalla memoria, ad intrecciare con sapiente naturalezza termini gergali e preziosi, ad aprirsi a combinazioni ardite e inedite, che la Pariani raggiunge i risultati più felici. Le sue pagine ospitano un infaticabile laboratorio linguistico, in cui le parole hanno imparato a convivere sfiorandosi senza farsi ombra, in cui il linguaggio pregrammaticale (zzz…zzz…zzz, dan dan, ecc.) si affianca a quello post-grammaticale (nevrastenia, isteria, psicopatia, sublimazione, ecc.), in cui termini gergali (slavato scagazzo, merdarella, cànchero, bastrucch, ecc.), espressioni popolari (epperò, vivamaria, ne ho a basta, dava zompi, ecc.), latinismi (ad libitum), neologismi (zerità), forestierismi (medio y medio, estancia, peones, ecc.) si succedono senza requie, in cui versi di grandi poeti (Campana stesso, Omero, Rimbaud, Baudelaire, ecc.) cedono il passo a canzoncine e filastrocche popolari, e ne condividono la trascrizione in lingua originale, forse nella consapevolezza che ogni traduzione comporta inevitabilmente un tradimento.
E, al pari dei suoi poeti, neppure il Campèna può sentirsi tradito dalla penna della Pariani, che con immagini di straordinaria intensità ha dipinto per lui un paradiso tutto terreno, in cui non ci sono critici ma solo il sapore delle fragole appena colte, lo sfolgorìo di un incendio nella pampa e il terribile odore del mare.
(Simona De Simone – Pubblicato su L’Indice n.6, Giugno 2015, p.17).
Notizie sui partecipanti
Laura Pariani
Nata a Busto Arsizio nel 1951, ha iniziato a pubblicare narrativa nel 1993 con Di corno o d’oro (Sellerio) con cui si è subito imposta nel panorama letterario, ottenendo il Premio Grinzane Cavour, il Premio letterario Piero Chiara e il Premio Città di Roma opera prima.
La vocazione alla scrittura si è rinsaldata negli anni successivi con la pubblicazione di numerosi romanzi tra cui La signora dei porci (1999), Quando Dio ballava il tango (2002), L’uovo di Gertrudina (2003), La straduzione (2004), Patagonia blues (2005), Milano è una selva oscura (2010), La valle delle donne lupo (2011), Nostra Signora degli scorpioni (2014), Il nascimento di Tònine Jesus (2014) e, da ultimo per Einaudi, Questo viaggio chiamavamo amore dedicato al poeta Dino Campana e alla sua esistenza, continuamente sospesa tra sogno e realtà. Gli interessi della scrittrice, però, spaziano anche all’editoria per bambini, al fumetto, al teatro, al giornalismo. È tradotta in molte lingue.
Gianni Turchetta
Nato a Salerno nel 1958, è professore ordinario di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università degli Studi di Milano. Nel corso della sua carriera Gianni Turchetta si è occupato prevalentemente del periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, pubblicando studi su D’Annunzio (tra cui nel 1995 un’edizione integralmente commentata del Notturno per Mondadori), Pirandello, Svevo, Tozzi, Moravia, Sciascia, Cassola, Consolo ed altri autori di primo piano nel nostro panorama letterario.
Un’attenzione particolare è stata rivolta dallo studioso a Dino Campana, a cui ha dedicato il volume Dino Campana, biografia di un poeta (Marcos y Marcos 1985, 19902, poi Feltrinelli 20033), che nel 1985 ha ottenuto il Premio “Gandovere”-“Sergio Antonielli” per la critica, nonché i saggi Cultura di Campana e significati dei «Canti Or-fici» (1985) e Il torrente e la gora: esperienza del viaggio e paradossi della temporalità nel pelle-grinaggio di Dino Campana (2011) e un’edizione dei Canti Orfici (1989). Dal 2011 si è dedicato all’edizione integrale delle opere di Vincenzo Consolo per la collana I Meridiani. Da ricordare, inoltre, i numerosi interventi di critica militante, su periodici come «Belfagor», «Pubblico», «Domus», «L’Indice», «Linea d’ombra», «L’Unità», «Diario» e la collaborazione con Radio Popolare e con la Radio della Svizzera italiana.
Laura Piazza
Nata a Siracusa nel 1985, si è diplomata nel 2012 all’Accademia d’Arte del Dramma Antico dell’INDA, diretta da Fernando Balestra. Per l’Istituto Nazionale del Dramma Antico è stata Antigone nella tournée 2011/2012, Ifigenia ne “Il canto dei vinti” per la regia di Mauro Avogadro (2011) e la Figliastra ne “I sei personaggi in cerca d’autore” per la regia di Monica Conti (2012).
Ha lavorato con Giorgio Albertazzi, Mauro Avogadro, Fernando Balestra, Emiliano Bronzino, Antonio Calenda, Monica Conti, Luca De Fusco, Claudio Longhi, Alessandro Maggi, Carmelo Rifici, Roberta Torre, Roberto Trifirò. Dal 22 febbraio 2016 è in scena con il monologo “Ghertruda la mamma di A.” di Davide Rondoni, per la regia di Filippo Renda, prodotto dal Teatro Stabile di Brescia. Interessata al rapporto tra teatro e poesia Laura Piazza cura dal dicembre 2014 “La poesia e la fontana” presso il Teatro Sala Fontana di Milano in collaborazione con il poeta Davide Rondoni.
È dottore di ricerca in Italianistica e collabora con l’Università di Catania in qualità di cultrice di Discipline dello Spettacolo. Ha pubblicato diversi saggi tra cui “Il gesto, la parola, il rito” (Il Melangolo, 2012) e “Il teatro di Mario Luzi”, prima monografia sulla drammaturgia luziana (Premio Centro Studi Mario Luzi 2015).