
Deborah Sgubin
con il testo “A di madri” (Tre storie unite)
Motivazioni della Giuria:
Il valore della maternità, nelle sue molteplici espressioni, vissuto in tre donne che affrontano diversi tragici destini, è il filo conduttore di “A di Madri” di Deborah Sgubin. Tre storie giocate su precari equilibri sintattico-lessicali, pervase da una grande forza espressiva, linguistica e pittorica, a cui corrisponde una forte intenzione morale.
Protagonista del primo quadro è Aurelia Josz, vittima del trauma della deportazione e della spoliazione nel campo di Auschwitz- Birkenau, colta poco prima della sua morte. Nella difficoltà di ri-definire se stessa e ritrovare quella fonte di luce che ha pervaso la sua esistenza, ecco che a illuminarla è il ricordo delle studentesse a cui ha fatto da madre, con le loro gonne larghe e le mani irruvidite dal duro lavoro nei campi.
L’attitudine pittorica dell’autrice si materializza nel secondo quadro in cui la mente corre al dipinto “La zattera della Medusa” di Gericault. La protagonista è una profuga siriana che nella guerra ha perso tutti i suoi beni: un marito, un figlio, i suoi studenti. Su un barcone, assieme ad altri profughi, tenta un disperata traversata nelle acque del Mediterraneo, sostenuta solo dalla forza di quel bambino che porta nel ventre e che vedrà la luce in terra straniera.
Nel terzo quadro i protagonisti sono due senzatetto che dormono sulle panchine di una stazione ferroviaria. La giovane donna, magra e affamata, tiene fra le mani degli uccellini che tenta di riscaldare , ricreando il calore di quel nido da cui sono caduti. In questo gesto si coglie il desiderio tutto materno di prendersi cura degli esseri più deboli e di aprirsi all’amore verso ogni elemento del creato.
Estratti dall’elaborato:
Mi spogliarono del mio mestiere assieme alle vesti. E adesso, come anima oltralpe, ricordo il progredire sul mio corpo di un’usura catalizzata dal viaggio. Il disorientamento ci aveva reso stanchi, ma la sorpresa era servita da deterrente per ogni occhio chiuso. I corpi mansueti si rivelavano alla luce del mattino, si svestivano lasciando per ultime coperte le nudità.
[…]
Era un concerto di bisbigli, ma tremendo nel suo reale significato di lamenti e apprensioni sottovoce. Oltre a sbirciate vaghe, da testa a testa, si gettavano dalle ciglia – lacrimoso trampolino – sguardi di tacita inconsapevolezza riguardo l’esito della giornata. Svegli al freddo quel mattino e ben trattati da uomini in uniforme. Confluimmo, come fiumana pulsante, attraverso una porticina in un vano successivo, che acquistava leggermente in grandezza ma non in luminosità.
Lo stanzino era piccolo, lo affollavamo in cento.
Nel momento in cui le fisicità furono completamente esposte dinanzi a me come ventaglio, ne osservai le carnagioni. Passando dal tenero eburneo dei bambini al grigiore grinzoso degli anziani, tra i quali mi annoveravo io stessa, contemplai una donna carezzarsi l’addome.
[…]
Lentamente, smisi di considerarmi estranea alla faccenda, perché si faceva strada – assieme al variegato odore di corpi umani stretti – il pensiero che ero lì con loro, ed ero loro.
[…]
Il trapianto dal campo di Fossoli a quello di Auschwitz-Birkenau servì ad alleggerirmi della vita. Il peso esperienziale della carriera scivolò cercando aria dagli spifferi aperti del vagone, ogni chilometro mi privava degli anni. Ciò che fu primo a svincolarsi da me – e lo sentivo fuoriuscire indistintamente da ogni lembo di pelle, attirato dalla salubrità dell’aria estiva – fu il bisogno. Smisi di lamentare necessità fisiche, materiali. La fame era abitudine e la stanchezza uno stato costante. Eppure, privata della comodità del pane, ancora mi sentivo bene. Vidi andarsene, agli occhi dei miei coinquilini ferroviari, il ruolo che avevo avuto nella società del tempo, di pioniera donna e insegnante. E una volta che fui svestita anche di ogni riconoscimento assegnatomi dallo Stato, rimasi solo donna con principi e amore […].
Nell’ultima tratta del viaggio scivolarono da me il tormento dedicato alla famiglia e, quasi nel frattempo, la dedicazione riservata all’insegnamento. Ma quest’abbandono era catarsi e non coincideva con rimozione o annullamento. Le mie studentesse riaffioravano in ricordo nelle loro gonne larghe e con le mani irruvidite dai bachi di seta, da terra, da legno. L’orlo dei vestiti svolazzava mentre si buttavano fuori da me, nell’immagine controcorrente della veduta scorrevole, oltre il treno e il vagone. Nel mio saluto mi sorpresi di non leggere alcun rammarico, ero serena. Come mamma che accompagna i bambini a scuola ai primi di settembre e loro abbastanza cresciuti si separano istruiti abbastanza alla vita.
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Mio figlio è piccolo. Tanto piccolo da stare sul palmo di una mano. Tanto piccolo che non mi è permesso tenerlo né nel pugno né tra le braccia, né di vederlo o di toccarlo con le labbra. So solo che c’è, lì, lì dentro, e della sua esistenza mi accerto ogni qualvolta che la barca si curva e flette sullo specchio marino. I sobbalzi sono metro per il mio stato di nausea, dissimile da quello degli altri migranti.
[…]
Il Mediterraneo fa da culla, a me e al mio bambino. Ne avevo un altro, giù a casa, tenuto per mano assieme a mio marito.
E poi un tuono venuto dal cielo, squarciatosi in terra.
I miei due uomini rubati dalla guerra siriana, io in fuga.
L’oscillazione dell’acqua non riserva per noi fuggiaschi un sentimento materno. Sono altre le creature che il mare chiama figli e tra questi sono i navigatori e nuotatori esperti gli uomini scelti. Noi siamo solo ospiti per un passaggio e in quanto tali non c’immergiamo, restiamo in superficie attendendo la fine della traversata.
[…]
Non sono più moglie, non in senso stretto, ma eterna amante, in senso letterale.
Vorrei qualcuno a cui dire “che caldo” o sussurrare “sto male”, ma il mio unico segreto confidente è questo piccolo che darò in terra svedese.
Lui è linfa vitale dall’interno e sostegno.
Il mio corpo è placenta.
Se fosse altrimenti, dubito la mia vita sarebbe proseguita ancora.
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«Mi preoccupo perché non mangi»
«…»
«Ascoltami, sto dicendo sul serio»
«…»
«Basta dormire, dormi tutto il giorno. Devi fare pur qualcosa»
«…»
«È inutile che fai finta di non sentire. Apri gli occhi»
«…»
«Sprechi energie»
«Esatto, spreco energie»
«Rispondimi meglio, per favore»
«Tu, aggiusta quel tono. Sei qui per me?»
«Mi preoccupo»
«Anch’io».
Lei tiene sul grembo due uccellini, pulcini. Ancora sporchi d’uovo, li carezza con le punte delle dita grasse.
«E quelli?»
«Quelli cosa?»
«Come cosa? Quelli»
«Sono piccoli, caduti»
«Non avresti dovuto raccoglierli»
«Forse no, ma la madre era morta e fa freddo»